lunedì 30 giugno 2008

Al god of metal folla in delirio per "Fratello Metallo"

Ormai è una star internazionale. Persino il quotidiano spagnolo El Mundo si è interessato a lui e non senza motivo. Perché un frate cappuccino che suona heavy metal non si vede tutti i giorni né in convento, né sui palchi dei più famosi festival rock.
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E invece Fratello Metallo, lunga barba bianca, saio d'ordinanza e chitarra elettrica a tracolla, ieri ha suonato al "Gods of Metal" di Bologna, sullo stesso palco di mostri sacri come Judas Priest, Yngwie Malmsteen e Morbid Angel, senza paura di calpestare il palco dove venerdì hanno suonato gli Iron Maiden, che già nell'82 cantavano "The number of the Beast", una delle canzoni più rappresentative del metal demoniaco.
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Le note biografiche diffuse dall'ufficio stampa del festival raccontano di un uomo dalla vita avventurosa, quasi da film. Fratello Metallo è il nome d'arte di Frate Cesare Bonizzi, un missionario cappuccino che fino ai 18 anni lavora come operaio, poi come agente di commercio, fino a scoprire la vocazione all'età di 29 anni, quando decide di entrare in convento. Subito dopo si trasferisce in Costa d'Avorio dove opera come missionario per poi rientrare in Italia. Nel 1983 è ordinato sacerdote e inizia la sua attività pastorale tra la gente. In particolare tra i tranvieri di Milano, di cui diventa assistente spirituale.
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E' qui che Frate Cesare scopre un'altra vocazione: quella per la musica. Inizia a suonare e a comporre le prime canzoni come "La danza del tram" dedicata proprio ai suoi amici tranvieri. E a incidere dischi. "Ne ho pubblicati quindici", ha affermato in una recente intervista. Il sedicesimo dovrebbe uscire a luglio e intitolarsi "Misteri".
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Il vero mistero però è se si tratti della storia incredibilmente originale di un personaggio "sui generis" o se invece sia una bufala creata ad arte in perfetto stile situazionista. Perché dei quindici dischi fin qui realizzati da Fratello Metallo non c'è traccia né sui cataloghi di vendita per corrispondenza, né sui negozi musicali on-line. Niente su Amazon, niente su Ibs, niente neppure presso gli storici e fornitissimi distributori per corrispondenza come Top Ten o Sweet Music. Nulla neanche sulle più comuni piattaforme di file sharing.
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E invece è tutto vero. Frate Cesare esiste. E' un frate cappuccino che vive presso il convento di Musocco, nei pressi di Milano, e la sua attività artistica è descritta minuziosamente nel suo sito web. Sì, perché Fratello Metallo utilizza le nuove tecnologie per predicare il Verbo e diffondere la sua musica.
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Si scopre così che "Frate Cesare Bonizzi Cappuccino Predicantore", come si autodefinisce sul sito, ha davvero inciso e pubblicato da sé una serie di album. Ma di heavy metal non c'è traccia. I titoli della discografia ricalcano piuttosto la missione pastorale del frate e i temi portanti dei suoi lavori spaziano dalla famiglia all'amore sino al rischio delle droghe: "L'Eucredo", "Maria e noi", "Droghe", "Come Una Fiamma", "Via Crucis Via Lucis".
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E l'insospettabile passione per il metal che lo ha reso famoso anche all'estero? A quanto pare si tratta di una conversione piuttosto recente dovuta a un concerto dei Metallica al Forum di Assago. Dopo il quale il frate musicista decide di realizzare un nuovo album, questa volta in chiave heavy metal. O per meglio dire "metrock", neologismo con cui Fratello Metallo definisce la sua cifra stilistica: "la mia musica è "metallo" condita con un pizzico di armonioso melodico rock". Difficile trovare dei metallari incalliti nella pace del convento. E allora non c'è niente di meglio che utilizzare un palco d'eccezione come quello del Gods of Metal (il più importante festival italiano del genere che in tre giorni attira qualcosa come 100mila spettatori) per lanciare un appello a formare un gruppo. Frate Cesare lo fa nell'edizione 2007. Su You Tube lo si può vedere mentre arringa la folla e si dichiara "prete vero e vero metallaro". Il miracolo è compiuto.
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Un anno e un album dopo Fratello Metallo è salito sullo stesso palco. Questa volta, però, da protagonista. Con la sua band, per presentare i brani "metrock" del nuovo disco "Misteri", e la folla era tutta per lui.

venerdì 27 giugno 2008

Grande ritorno dei Jethro Tull, Occasione ghiottissima....

L’occasione è doppia e, inutile dirlo, ghiottissima. Anzi, irrinunciabile. Una nuova calata dei folletti di Ian Anderson in Italia (tra le tappe Roma e Milano alla Milanesiana), e l’attesissima ristampa dell’esordio storico dei Jethro Tull: This Was.Ristampa, eccezionale, curatissima e oggetto preziosissimo, studiata e voluta dalla Emi Music nell’ottica di un rilancio (una riscoperta, un doveroso studio) di quello che, ad oggi, è uno dei più grandi gruppi rock della storia.
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Partiamo proprio da This Was, prima di concederci il lusso di un volo radente sulla prima parte della vita artistica del gruppo: quello che ne ha costruito l’ossatura e ne ha fatto la fortuna, sia in termini di successo e di fama che in termini artistici.
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Quindi procediamo con ordine: Collochiamo storicamente i Jethro Tull e This Was. Inghilterra, fine anni Sessanta, in piena blues revolution. Il Regno Unito è un’esplosione di musica nera, declinata in ogni sua forma possibile. Gli angoli delle strade, i pub, le venues, qualsiasi luogo riflette una ricerca spasmodica del culto blues, dell’elettricità, del calor bianco di una musica che sta attraversando cervello e cuore di gente come gli Stones, gli Yardbirds, i Pretty Things. In questo periodo si gettano le basi fondamentali per quello che sarà, in seguito, l’asse portante del rock britannico.
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Per almeno due decenni. Il blues parla un linguaggio incredibile, e genera mostri ad ogni istante: si aggira per le strade londinesi un signore, a nome Eric Clapton, che sta facendo miracoli. E sta traducendo la più classica delle culture nere, in qualcosa di bianco e “crossover”. Crossover Antelitteram. Prima dell’arrivo di Dylan e della sua All Along The Watchtower. This Was lancia nel mondo musicale i Jethro Tull. Lasciando tutti a bocca aperta. Quasi una cometa, o forse una meteora (ma la storia dirà esattamente la prima cosa). Qualcosa che stupisce, affascina, ma quasi disturba. E l’elemento di disturbo è subito chiaro a tutti.. C’è un folletto, sul palco, che si chiama Ian Anderson e suona il flauto. Il flauto? Panico tra la folla.
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Critica spiazzata. Che s’interroga tra i bisbigli generali.Un passo indietro. La formazione di rock blues, quella standard, quella riconosciuta nel mondo, quella che in quel preciso momento l’Inghilterra codificava come l’unica possibile, era composta classicamente da basso, batteria, chitarra e voce. Addirittura, nascevano i power trio, con il cantante in veste di chitarrista o bassista.
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Trovarsi un flautista sul palco era certo una cosa totalmente inaspettata. Un elemento culturale di rottura. Bene. Questo aiuterà a capire. Poi veniva la musica di This Was. Un disco che, sì, risentiva chiaramente di quell’esperienza così straripante del blues (Some Day My Light Won’t Shine è, di fatto, uno standard blues riconoscibilissimo) e s’inseriva nelle primi vagiti dell’Hard Rock Blues di classe (su tutti il capolavoro Cat Squirrel) ma inseriva un elemento nuovo, incredibilmente fresco, stordente, come appunto la conduzione fiabesca di un flauto che riportava il blues alla musica classica e, nel contempo, al prog folk. Il concetto era molto chiaro: un gruppo che, dalla sintesi di classica, rock, musica popolare, folclore, riusciva a rielaborare una forma completamente nuova e narrativa come niente, al mondo, lo era.
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C’erano piccole influenze jazz, ma non era quello che contava. Era, più di tutti, quel modo di “parlare” il rock, di fabulare, che lasciava a dir poco attoniti. Ian Anderson (perfettamente rappresentato nella bellissima foto d’interno copertina di This Was) sembrava un clochard un po’ matto, catapultato da qualche invenzione narrativa di Perrault, pronto a sedurre e condurre alla perdizione il popolo della musica. Uno gnomo satanico e famelico, destinato a recitare la parte del male.
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In questo, meraviglioso è il booklet interno che racconta la storia e la nascita dei Jethro Tull, regala foto bellissime ed aneddoti curiosissimi (tra i quali la storia del flauto di Ian Anderson, barattato per una Stratocaster che finì poi nelle mani di Lemmy dei Motorhead) oltre che un bonus Cd fantastico, pieno di registrazioni live e di outtake dell’epoca.
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Il gruppo si proiettò verso l’infinito con l’uscita del secondo album Stand Up nel quale trionfava sovrana una cover, nientemeno, di Bach. Bourée fu un azzardo talmente riuscito, da lanciare il gruppo in tutto il mondo. Nessuno aveva mai osato. Nessuno era mai arrivato a tanto. Nessuno l’aveva mai fatto così perfettamente. Stand Up non fu solo importante per quello. C’era una canzone, una lunga e delicatissima canzone, che da sola spiegava più di ogni altra cosa, chi fossero i Jethro Tull veramente: Jeffrey Goes To Leicester Square, il perfetto equilibrio tra il prog, il pop e i folk. Insomma, uno specchio fedele di un gruppo che imponeva il suo marchio di fabbrica a tutti. I Jethro Tull ora erano una divinità.
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Talmente potente da sopravvivere anche al passo falso (troppo jazzato, troppo forzosamente complicato) di Benefit, salvo poi regalare la coppia d’assi, i due dischi fondamentali della loro carriera: Acqualung e Thick As A Brick, rispettivamente nel 1971 e nel 1972. Nessuno capì mai come una band, nel breve volgere di due anni, avesse potuto concepire, scrivere e suonare due album di tale livello. Due album consegnati, con This Was, dritti dritti alla storia del rock. Acqualung era la perfezione del concetto Tulliano. C’era Cross Eyed Mary, canzone talmente potente da diventare, pensate, punto di partenza per un gruppo così stilisticamente differente come gli Iron Maiden che, 15 anni più tardi, proprio da quelle ritmiche cominciarono il loro percorso di costruzione dell’Heavy Metal. C’era Aqualung, la title track, in cui Bach e Mozart si scontravano meravigliosamente con il folk crudissimo dell’Europa medioevale, e con il blues minimale di Robert Johnson.Un disco di una portata talmente epocale, da ottenere la giusta dimensione critica solo dopo vent’anni di discussioni fra le penne storiografico musicali del pianeta.
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E mentre si discuteva sulla reale portata e sul valore storico della band inglese, il gruppo volava verso Thick As A Brick. Thick As A Brick fu la massima espressione del prog intellettuale e sofisticato (in compagnia degli Yes e dei Genesis del trittico storico Foxtrot, Nursery Crime, Selling England By The Pound) e fu anche l’ultimo capolavoro dei Jethro Tull, prima di un lungo blackout artistico. Thick as A Brick chiudeva un’epoca, e lo faceva innalzando ad arte la struttura del concept album (tanto in voga negli anni settanta e caratterizzato da un’unica trama narrativa cui il disco dava forma musicale. Una sorta di letteratura in musica, con canzoni legate fra loro da un tema e da una storia).
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Dopo Thick As A Brick il doppio antologico Living The Past e poi, momenti di calo alternati a momenti di grande euforia. Ma ciò che conta nella storia dei Jethro Tull, è tutta qui.
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Ora sta a voi: partire con la fondamentale ristampa di This Was, continuare nel percorso discografico e godervi, dal vivo, il ritorno di un mito. Assoluto.

mercoledì 25 giugno 2008

Recensione - Zodiac

Regia: David Fincher
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Genere: Thriller
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Cast:
Jake Gyllenhaal - Robert Graysmith
Mark Ruffalo - detective Dave Toschi
Robert Downey Jr. - Paul Avery
Anthony Edwards - detective Bill Armstrong
John Carroll Lynch - Arthur Allen
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Durante l'estate del 1968, nell'area di San Francisco, comincia a operare un serial killer che rivendica i propri omicidi con lettere spedite ai principali quotidiani locali. Dopo aver assunto un nome riconoscibile, Zodiac, l'assassino sfida la polizia con una serie di messaggi in codice che nessuno riesce a decifrare correttamente. Sulle sue tracce, oltre a una coppia di detective, si mettono anche un giornalista alla ricerca di scoop e un vignettista frustrato, quest'ultimo appassionato di codici ed enigmistica: la sfida è appena cominciata…
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Zodiac è un thriller atipico: ispirato alle azioni di un serial killer che tenne per anni in scacco la polizia di San Francisco (ancora oggi il caso è considerato chiuso solo perché il principale imputato morì prima di essere sottoposto a processo), il film di David Fincher concentra le sue attenzioni non tanto sulla figura dell'assassino, che rimane sullo sfondo, avvolta da un'aura inquietante e misteriosa, ma su un eterogeneo gruppo di personaggi, le cui vite vengono sconvolte dalle azioni del killer.
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Il tema dell'ossessione, già declinato efficacemente da Fincher nelle pellicole del suo recente passato, ritorna e diventa quindi perno dell'intera vicenda: tutti i protagonisti della storia, in primo luogo l'ispettore David Toschi (un eccezionale Mark Ruffalo) e l'anonimo vignettista Robert Graysmith (il capace Jake Gyllenhaal), sacrificano carriera, affetti e famiglia, pur di trovare il bandolo della matassa che, anno dopo anno, si fa sempre più fitta e apparentemente inestricabile. Sullo sfondo, emerge sempre più chiaro il ruolo chiave che assumono col passare degli anni i media e l'informazione in generale.
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Nonostante la sua eccessiva durata (oltre due ore e mezza), il film è appassionante garantisce più di un momento memorabile: la sequenza dell'omicidio a sangue freddo di una coppietta nei pressi di un lago e quella che vede Jack Gyllenhaal scendere nello scantinato di uno dei presunti colpevoli, valgono, come si suol dire, il prezzo del biglietto. Peccato che Fincher non abbia utilizzato il tempo a sua disposizione per approfondire meglio alcuni personaggi, come quello del giornalista ubriacone interpretato (casualmente…) da Robert Downey Jr. e quello della moglie del vignettista, forse troppo marginale, cui dà volto e corpo Chloe Sevigny.
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Zodiac è un film ostico, affascinante, un "thriller non thriller" anticonvenzionale, forse troppo lento e denso di fatti e dialoghi. In America il pubblico non ha gradito (la critica è invece osannante). Da noi ha riscosso sicuramente miglior fortuna. Quel che è certo è che David Fincher, ha davvero talento da vendere.

lunedì 23 giugno 2008

....Uno, nessuno, e OTTANTAMILA!....

VENEZIA - Vasco Rossi come uno, nessuno e ottantamila. Tanti erano gli spettatori arrivati ieri al Parco San Giuliano di Mestre per il concerto del suo "Live.08 tour" in cartellone all'Heineken Jammin' Festival. Non saranno stati i 150 mila che l'accolsero a Imola qualche anno fa, ma il colpo d'occhio sul grande Parco al centro della laguna di Venezia era comunque impressionante, trasformato fin dalle prime ore del pomeriggio in un bivacco di tende per ripararsi dal sole. Erano lì tutti per lui, pronti a cantare in coro per tre ore filate di concerto, ma l'intolleranza dimostrata in altre occasioni per i gruppi di spalla stavolta si è trasformata in indifferenza, come ha dimostrato il rapido set dei Marlene Kuntz, che si sono esibiti nel tardo pomeriggio, con il sole ancora alto, subito prima del Blasco, di fronte a un mare di striscioni dedicati solo al rocker di Zocca alzati in modo quasi provocatorio.
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Vasco ha sostanzialmente ripetuto il concerto già visto nelle date tutto esaurito che ha tenuto negli stadi delle maggiori città italiane, e non è affatto escluso che molti tra gli ottantamila ragazzi arrivati al Parco San Giuliano avessero già visto uno dei suoi recenti concerti. Ma ad un concerto di Vasco si torna perché è soprattutto una festa, un sabba rock che si ripete ogni volta con gli stessi elementi, rinnovando però con la stessa forza l'emozione ed l'identificazione con il proprio idolo.
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Lo spettacolo è stato lo stesso, stessa scaletta, è cambiato solo il palco, con quell'enorme gioco di specchi relegato sul fondo e un po' depotenziato negli effetti di luce. Vasco è apparso sul palco grande dell'Heineken Jammin Festival dopo aver pronunciato la frase fuoriscena che accompagna i suoi ultimi show: "Il filosofo Spinoza diceva che chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da tristezza. Noi siamo qui questa sera per portarvi un po' di gioia". Esattamente come nelle numerose date del tour, e a questo punto manca solo la data allo stadio San Filippo di Messina, il prossimo 4 luglio.
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"Qui si può solo piangere e alla fine non si piange neanche più" canta nella canzone che dà il titolo al nuovo album, Il mondo che vorrei, in cui distilla tristezza e disperazione facendo ancora centro anche tra i più giovani, un disco che rappresenta la vera ossatura di questo travolgente show e che esegue quasi per intero. Dopo Qui si fa la storia si ascoltano in fila Cosa importa a me, Dimmelo te, Vieni qui. Poi passa all'album Gli spari sopra del '93 e dopo La noia cambia il testo di Non appari mai, un pezzo critico sul lavaggio del cervello praticato dalle televisioni, quando canta con ironia: "Qui siamo tutti belli e buoni, votiamo tutti Berlusconi".
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La prima parte del concerto si chiude con T'immagini che Vasco recupera dal passato, un segnale che il disincanto del nuovo disco Il mondo che vorrei ha radici lontane, e con Siamo soli, la canzone pià ascoltata tra le tende del parco nel pomeriggio, la più attesa dal suo pubblico, che infatti l'accoglie con un boato che squarcia l'aria.
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Per recuperare i brani più amati dal suo pubblico, quelli che proprio non può evitare, Vasco nei bis si presenta sulla scena in un siparietto acustico: si ascoltano Toffee, Ridere di te, Brava Giulia, Dormi dormi, Va bene, va bene, tornata nei suoi live dopo dieci anni. Il finale è tutto per Vita spericolata: la interpreta solo piano e voce, la introduce dicendo "c'è una puntualizzazione che devo fare" e inizia con un "io" che nel testo non c'è ed è chiaramente indirizzato a Tricarico che dal palco del Festival di Sanremo gli aveva fatto il verso con la sua "Una vita tranquilla". Gran chiusura, come da tradizione per Vasco, con Albachiara: tripudio.

venerdì 20 giugno 2008

Recensione - Fursaxa - Kobold moon

Il soliloquio spettrale di un’anima. Il sentiero, sempre più stretto e buio, che conduce a quelle rivelazioni fulminanti, a quel vortice di incanti in cui la mente vacilla, il cuore rallenta e l’occhio vigila senza prospettive, indifeso.“Kobold Moon” è l’argine free-folk universalistico di "Lepidoptera" che si squarcia, polverizzato da visioni trascendentali, l’inabissarsi della voce tra le mostruose voragini dell’anima. Sulle tracce di Nico, lungo le cime astrali di Tim Buckley, tra sirene dormienti e deserti cosmici sfiorati dal gelido dubbio dell’insensatezza (“Desiree”, ovvero “L’Accordeon Quatre” - “Mandrake”, 2000 - diventato eterno circolo… tremula dimensione infinita… pianto senza fine).
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Terribile, misterioso, affascinante, necessario: in questo viaggio, Tara Burke/Fursaxa è davvero indifesa, lontana dalle coste, tra flutti impetuosi. Solitaria sacerdotessa di se stessa, molte miglia più in là delle stesse meraviglie ritualistiche di “Lepidoptera”. La voce - un’amica più che un’arma - tra scampanellii e lievi ombreggiature percussive, si muove nel vuoto come un’assenza mascherata. Potrebbe essere l’inizio di un racconto antichissimo. La novella senza tempo di fedeli in processione che invocano, più che “subire” nel corpo, il divino (“Kokopelli”). Stupefatto, l’abbandono ne segue le tracce sul bordo(-ne) del precipizio (“Nakondisi”), e le preghiere si tramutano in agonia di foglie che scolorano al tramonto, la luna muta custode dell’oltretomba (“Leaves Of Bryony”).
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Seguendo un itinerario di destabilizzazione e di rarefazione progressiva, la musica finisce per assumere sempre più le sembianze di una muraglia, incandescente di misteri ultraterreni. Il limite che ci separa dall’impenetrabile. E, sulla “qualità” di quel limite, si gioca la partita della nostra percezione. Insieme smisurato e magico, il cammino della fanciulla di Philadelphia dentro l’insondabile procede senza remore, col coraggio di chi ha ascoltato e visto più di quanto, quotidianamente, si possa arguire.
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Su questi derelitti vascelli di voci-senza-corpo, che scivolano l’uno dentro l’altro, proiettandosi verso l’alto, baluginano allegorie di regni metafisici, come le “Poppies” di Buffy Sainte-Marie stordite - a notte fonda, dentro una cattedrale sommersa dalla neve - dalla luce raminga, dalla "Irrlicht” Schulze-iana: “Saxalainen” è, così, una liturgia aurorale, un linguaggio pre-razionale di suoni-sensazioni, in perenne dispersione da uno sfuggente centro gravitazionale. Equilibri di vertigini e tempeste psichiche, con quello che, sul finire, potrebbe essere l'eco di campane, deforme e lontanissima, che riverbera l’addio, il distacco dal Tempo.
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Ma dove cadono queste invocazioni? Dove vanno a finire? Fin dove possono spingersi? Fin dove è possibile seguirle? Sono esse, forse, serigrafie di suono dentro una brezza di ghiaccio? (“Song Of The Spindle Berry”). Il senso religioso e devozionale di opere quali “Amulet” o “Alone In The Dark Wood” regredisce verso la disperazione di un mondo nudo e muto, e sono i meandri free-form di “Sidhe” a generare un vortice di celestiali nebbie spirituali (quasi un’”Hosianna Mantra” in perpetua dissolvenza) in cui la voce, irradiata tra innumerevoli riflessi, prova a lasciar germogliare desideri e speranze, mentre solenni s’innalzano immateriali polifonie cosmiche.
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“Kobold Moon” è il dramma degli spazi interiori che risuonano nel Vuoto, senza pace. E’ l’odissea della Voce che nomina, esorcizzandoli, il dolore di un’assenza incolmabile e l’ansia profondissima di una ricerca eterna. Alla fine, tutto sprofonda nell’abisso accecante/inumano di “Cornus Of Florida” (altro vertice spaventoso che, insieme a “Saxalainen”, è già uno dei massimi capolavori di questi anni). Mimesi purissima (con scarabocchi elettronico-galattici e squarci di world-music iperuranica) del Dopo.
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Forse, qualcosa come la “lichtzwang” (“luce coatta”) di Paul Celan…

martedì 17 giugno 2008

«Loveday», musica gratis per beneficenza


Musica gratis via internet. Radiohead, Wilco e Nine Inch Nails, con i loro dischi disponibili in rete senza costi, hanno dimostrato che esiste una via legale al download a costo zero. Gratis non è più sinonimo di pirateria o di strategia riservata alle band emergenti che hanno bisogno di farsi conoscere.Questi progetti pionieristici hanno dimostrato che il web può fare bene alla musica e ora fanno da esempio ad altre iniziative. Come «Loveday», progetto che raccoglie artisti attorno alla domanda «Che faresti per amore?» (How Far Would You Go for Love?»).
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Alla chiamata hanno risposto 12 musicisti che vanno da un mostro sacro del rock come Lou Reed all'attrice francese Marion Cotillard, dal sofisticato duo Fennesz-Sakamoto al rock retro dei Phoenix, all'eclettico Dan Black.I loro brani da qualche giorno si possono scaricare gratuitamente dal sito www.love.cartier.com.
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Un'anticipazione di un'iniziativa dedicata alla celebrazione di una giornata dell'amore che unirà lusso e beneficenza. Giovedì, infatti, le boutique di Cartier (a Milano ci saranno Lucilla Agosti e Daniele Bossari di Radio Monte Carlo, partner del progetto, a fare i commessi) metteranno in vendita il bracciale Lovecharity, un cordoncino di seta rossa chiuso da due anelli d'oro intrecciati: il 20 per cento circa degli incassi andrà a favore dell'Unicef.
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La recensione dei brani:
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1. Lou Reed - The power of the Heart - Basta la sua presenza per salvare qualsiasi iniziativa? No, perché da mr Velvet Underground ci si può aspettare anche qualche caduta di tono. Se avete problemi di spazio sull'hard disk, questo è comunque uno dei pezzi da scaricare di certo: obliquo e intrigante come solo lui sa essere.
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2. Grand National - Drive Another Time Around and Stop - Dolcezze con sintetizzatori in stile Anni Ottanta per il duo dance londinese: evitabile
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3. Dan Black - Liz Johnny - Dopo essere stato vocalist dei Planet Funk e leader dei Servant, Dan ci prova da solo. E anche questa volta ci prende. Una storia d'amore raccontata con ironia, quello che sembra un clavicembalo-spinetta sintetizzato, una base di percussioni e poco più: funzionerebbe anche come singolo. Da scaricare assolutamente.
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4. Pauline Croze - Sur l’ecorce - Una delle punte della nuova generazione di musicisti francesi: ambientazione da fine serata chic in discoteca.
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5. Hawksley Workman - The Ground - L'artista canadese offre una canzone senza grandi guizzi, un giro sentito mille volte.
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6. Sol Seppy - I Am Snow - L'americana ex Sparklehorse sussurra la sua poesia d'amore con una voce disperata alla Cat Power.
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7. Thomas Dybdahl - Everybody Knows - Arriva dalla Norvegia, ci racconta che l’amore è qualcosa che non si spiega con dei suoni che partono alla Sigur Ros per arrivare all'elettronica minimal.
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8. Phoenix - Twenty-one One Zero - Un'anticipazione dal prossimo album del gruppo francese. Una versione strumentale che fra chitarre e elettronica fa venire tanta voglia di ballare.
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9. Little Dragon - Infinite Love - Quartetto svedese con la voce della ex-Koop Yukimi Nagano. Abbastanza scontato e deludente nei suoni e nella melodia.
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10. fennesz+sakamoto - Mor - Non c'è progetto musicale nel mondo che non veda coinvolto Sakamoto. Per chi è un genio il giudizio poco cambia. Chi si annoia anche solo a sentirne parlare è autorizzato a sbadigliare.
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11. Marion Cotillard - The Strong Ones - Noi abbiamo la Gerini. I francesi la Cotillard. E questo vale sia nel cinema (Marion ha vinto l'Oscar) che nella musica (la Gerini da tempo minaccia un cd, ma per il poco che ha fatto sentire meglio che non ci sia un seguito). Marion promossa per la voce calda su una ballad tradizionale.
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12. Khalil Fong - Love in This World - Viene da Hong Kong e sembra Jack Johnson. Sufficienza politica.

venerdì 13 giugno 2008

Recensione - Airbourne - Runnin' wild


Nel caso, per qualsiasi inesplicabile ragione, vi stiate domandando come potrebbero suonare gli AC/DC se, invece che inanellare un'incredibile serie di dischi capolavoro dagli anni settanta in poi, si trovassero ad esordire nell'anno del signore 2008, gli Airbourne sarebbero la vostra risposta.
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Questi quattro selvatici personaggi poco più che teenagers provenienti da Warrnabool (no, non l'ho scritto male...), Australia rappresentano una boccata d'ossigeno per chi è stanco di aspettare il successore di Stiff Upper Lip, mentre non diranno più di tanto a tutti gli altri. Infatti, come già scritto, gli ingredienti che compongono il loro secondo disco Runnin' Wild sono stati rubati dalla cucina di Angus Young, e quello che i fratelli Joel e Ryan O'Keeffe, David Roads e Justin Street hanno dovuto fare è stato solo mescolare il tutto e farsi aggiungere un pizzico di mestiere da un guru della produzione come Bob Marlette (Black Sabbath, Alice Cooper, etc...).
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Inutile e fuorviante esaminare canzone per canzone: sono tutte sostanzialmente uguali, fortunatamente. Ma è proprio questo il pregio di questo album: è un mattone scagliato contro i vostri padiglioni auricolari alla velocità della luce, e sfido chiunque abbia anche solo una stilla di ritmo nel sangue a non muovere il piedino all'attacco di Runnin' Wild o di Girls in Black..Certo il rischio di plagio bello e buono è sempre dietro l'angolo: Too Much,Too Young, Too Fast e Diamond in the Rough sono "prese in prestito" senza troppi complimenti dal repertorio degli Ac/Dc e non mi stupirei se il Sig. Young bussasse alla porta dei quattro baldi giovinetti e reclamasse una fetta della torta.
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Non sposteranno di una virgola l'evoluzione dell'hard rock, saranno forse una meteora destinata a durare una stagione, o forse anche saranno brutti, sudati, antipatici e cattivi, ma noi non vediamo l'ora di gustarceli al Gods of Metal di quest'anno. Fino ad allora: Stand Up for Rock 'n' Roll.
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Tracklist:
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1. Stand up for rock'n'roll
2. Runnin' wild
3. Too much, too young, too fast
4. Diamond in the rough
5. Fat city
6. Blackjack
7. What's eatin' you
8. Girls in black
9. Cheap wine
10. Heartbreaker
11. Let's ride
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Recensione - Chiamata senza risposta

Regia: Eric Valette
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Genere: Horror
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Cast:
Edward Burns - Jack Andrews
Shannin Sossamon - Beth Raymond
Ana Claudia Talancòn - Taylor Anthony
Ray Wise - Ted Summers
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Una studentessa riceve un messaggio in segreteria dal futuro lasciato apparentemente da se stessa, sul punto di morte. Il presagio si avvera e a breve una catena di morti violente si susseguono, tutte preannunciate dallo stesso tipo di messaggi, con la stessa inquietante suoneria…
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Parte dell'interesse del j-horror giapponese, ormai forse assopito, è stata nell'abilità di fondere il mito sugli spiriti orientali con caratteri molto contemporanei relativi alla vita di tutti i giorni. Della tecnologia non possiamo più farne a meno e portiamo un cellulare sempre con noi. Cosa fare se questo diventasse nocivo? O addirittura la causa della nostra morte? Sono temi che Chiamata senza risposta evita accuratamente di toccare per costituirsi esclusivamente come l'insipido remake della pellicola di Takashi Miike, The Call - Non rispondere.
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Il meccanismo non può che farsi logoro, anche perchè se fino a dieci anni fa vedere gli originali era pressoché un'esclusiva da festival, attualmente la distribuzione è quasi paritaria. Non si vede dunque il motivo di preferire un remake americano a distanza di pochi anni dove si perde, inoltre, l'esotismo degli spiriti orientali così come la capacità indiscussa di certi grandi registi asiatici di cimentarsi in opere di genere.
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Takashi, maestro dell'orrore morboso, spesso ai limiti del visibile, si era divertito in un'opera su commissione prodigandosi in eccessi di spaventi e costruendo una trama contorta che finiva per avvitarsi su se stessa (perdendosi volutamente). The Call, che era comunque un giochino di un autore abituato a ben altro, entrava a tal punto in sintonia con lo spettatore da fargli credere che, in certi istanti, fosse il suo cellulare a squillare.
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Eric Vallette, invece, esplicita ogni passaggio con pedanteria, rendendo la trama ben limpida e per questo meno inquietante. L'importanza di quel qualcosa che sfugge nelle motivazioni di fantasmi che cercano vendetta, d'altronde, i maestri come Nakata Hideo e Kiyoshi Kurosawa l'hanno capita da tempo. È proprio in quella casella vuota, spesso, che si cela lo scarto tra una fabbrica di spaventi e un'inquietudine più profonda che c'impone d'indagare le motivazioni della violenza. Infondendo un malcelato terrore che dietro le azioni omicide del fantasma di una bambina, non ci sia né la vendetta né la ricerca di pace quanto, piuttosto, un insensato odio.
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Elementi da sviluppare, dunque, e in un remake del genere ce ne sarebbero fin troppi. Inutile dire che Vallette si limita a una regia piatta che moltiplica persino le presunte apparenze mostruose, finendo per renderle ben presto inefficaci. Mentre la sceneggiatura evita le bizzarrie di Takeshi sterilizzando un'opera che era interessante appunto per le sue sbavature.Di Chiamata senza risposta pare dunque evidente l'intento commerciale, quello di riproporre qualcosa di già collaudato per attirare le generazioni più giovani, molto meno evidente, purtroppo, quello creativo.

mercoledì 11 giugno 2008

Foo Fighters - Grandi emozioni a Wembley

Londra, 9 giugno 2008, stadio di Wembley, questo già sarebbe bastato a dire che il concerto dei foo fighters sarebbe stato un successo....
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Era già la seconda serata di concerto per Dave Grohl e soci, l'imbarazzo della prima in uno stadio così importante e spettacolare non c'è più, direte voi, ma quella sera il quartetto americano aveva qualcosa, forse molti fan si saranno acorti di un pizzico di agitazione, ma è facile pensare all'emozione del palco, alla quale è dura abituarsi, è facile pensare alla pressione psicologica di un luogo come lo stadio di Wembley.
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Tutte cose facili da pensare, ma quello che stava per succedere su quel palco non era facile da pensare, quasi impossibile, a chi sarebbe mai venuto in mente?....
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Vi state chiedendo cosa può essere successo di tanto eccezionale? Allora provate a immaginare di essere lì, stadio di Wembley, probabilmente lo stadio più bello dove assistere ad un concerto, i Foo Fighters entrano sulle note di "The pretender", la folla comincia a urlare, e lo spettacolo inizia.
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Il concerto va avanti, Grohl e soci passano da "Times like these" a "Cheer Up Boys, Your Make-Up Is Running" a "This is a call"; tutto spettacolare, esaltante, ma qualcosa non vi convince, sembra che i quattro diventino più nervosi ad ogni canzone, come se aspettassero qualcosa, e forse per un attimo vi viene da pensare, mi aspettavo di più, più carica, più convinzione....
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Ormai comincia a farsi tardi, Everlong è la quindicesima canzone, e quella pulce nell'orecchio vi è rimasta, ma la canzone è stupeda, le note leggere, il coro, gli accendini, un'emozione così fa dimenticare tutto.... E così quell'impressione svanisce, volete solo vedere il concerto.
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Subito dopo parte "Monkey wrench", e sapete che il concerto sta per finire, Dave Grohl sembra non riuscire più a trattenersi, è agitato, nervoso, finchè, finita la canzone prende il microfono, guarda tutti i fan e chiede una cosa che lui stesso definisce impossibile, chiede un attimo di silenzio e.... "Playing here at Wembley Stadium is an honour, and if we didn’t take advantage of this opportunity, the greatest fucking night in our band’s lives… for all you ... motherfuckers, it isn’t gonna be any other show...".
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Da dietro le quinte spuntano 2 sagome.... non capite e vi chiedete chi possono essere.... ma poi le luci si accendono sul palco e un urlo squarcia Wembley.... "Welcome to the greatest fucking day of my life!". Dave Grohl non lo tieni piu' e salta come furetto su quel grande palco... Jimmy Page e John Paul Jones! D'improvviso capite che cos'era quella sensazione, quell'agitazione in Dave Grohl, ma non ci pensate più, perchè siete andati a Wembley per vedere i Foo Fighters e vi ritrovate a guardare i Led Zeppelin.... cantano "Rock'n'roll" e "Ramble On", la folla è in delirio, migliaia di telefonini filmano qualcosa di incredibile, che vi resterà sempre nel cuore, perchè state assistendo a una nuova pagina della storia del rock....

domenica 8 giugno 2008

Recensione - Hot fuzz


Regia: Edgar Wright
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Genere comico/poliziesco
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Cast:
Simon Pegg - Nick Angel
Nick Frost - Danny Buttermann
Jim Broadbent - Frank Buttermann
Timothy Dalton - Simon Skinner
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Nicholas Angel è sulla carta il fiore all'occhiello delle forze di polizia londinesi, con record di riconoscimenti ufficiali e onorificenze ottenute in servizio. Un impressionante zelo non basta però all'agente per conquistare la simpatia di colleghi e superiori, che lo considerano un esaltato a causa della propria smodata dedizione al lavoro.
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Con la scusa di una promozione a sergente, l'agente Angel verrà così spedito, suo malgrado, in uno sperduto paesino di campagna a 250 km da Londra. In un posto in cui la missione più rischiosa sembra essere accompagnare a casa gli ubriachi il sabato sera, una serie di morti apparentemente accidentali porterà il segugio Angel su una pista inquietante. E se la tranquilla cittadina di campagna non fosse poi così tranquilla?
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A volte ritornano: dopo L'alba dei morti dementi, capolavoro horror-comedy ignorato dai morti viventi della distribuzione cinematografica italiana, riecco dall'Inghilterra Edgar Wright, Simon Pegg e la spalla Nick Frost a calcificare la propria posizione come ultimo baluardo genuino occidentale della black comedy (Danny DeVito non si offenderà....).
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Rivoltando come un calzino lo stereotipo del super agente, Hot Fuzz ottimizza il proprio potenziale attraverso una miscela esplosiva di comico e macabro, innescata da un intreccio iperbolico ricco di trovate dallo spessore tangibile, citazioni e frammenti da situation comedy (a rievocare il passato televisivo degli autori Wright e Pegg). La regia pulita e la presenza di ben dosati effetti di scena, digitali e non, sono in linea con la condotta da produzione intelligente della pellicola, il cui merito principale, come del resto per il predecessore L'alba dei morti dementi, è quello di osare proponendo qualcosa di concettualmente moderato, dove il quotidiano può prendere una brutta piega ma rimane pur sempre tale, con sfighe varie e figuracce colossali comprese nel prezzo.
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Hot Fuzz conquista il merito alla visione sin dalla tagline sulla locandina, semplicemente perfetta: "Grandi poliziotti. Piccola città. Violenza moderata".
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Un ottimo film, che all'inizio pare semplicemente un film comico come ce ne sono molti, ma proprio al momento giusto compare quell'alone di macabro mistero che rende la pellicola intrigante, anche se con molti tratti comici; è grazie alla comicità intelligente e per nulla volgare che il film si distacca dalle solite trovate comiche che spesso sbancano i botteghini ma non sanno di niente. Complimenti a Edgar Wright.... ci vuole qualcuno che torni a fare comicità che faccia davvero ridere....

venerdì 6 giugno 2008

Steve Vai - 48 anni sulle corde di una chitarra....


Altro compleanno e altra occasione per aprire una parentesi su un grande della musica rock: Steve Vai, uno dei migliori chitarristi della storia, oggi compie 48 anni, e in tutto questo tempo di cose ne ha combinate....
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Steve ha origini italiane (la sua famiglia emigrò dall'Italia verso gli Stati Uniti, e più precisamente il padre viveva a Dorno (PV)). La sua data di nascita fa sì che compì sei anni il sesto giorno del sesto mese del 1966, come venne annotato nel "libro della chitarra" di Frank Zappa (questo come a voler sottolineare che si può tranquillamente parlare di chitarrista, almeno quanto a tecnica e talento, diabolico).
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Vai è conosciuto per la sua musica strumentale per chitarra, che compone, esegue e produce da sé, ma ha anche suonato nelle registrazioni di diversi altri artisti e gruppi rock. Steve Vai si fece un nome suonando la "stunt guitar" proprio con il leggendario artista, compositore e produttore rock Frank Zappa, il quale lo assoldò dapprima nel ruolo di trascrittore di partiture ed in seguito come esecutore dei suoi brani più complessi, brani che richiedevano grandi capacità tecniche.
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Nel 1985 sostituisce Yngwie Malmsteen come chitarra solista negli Alcatrazz di Graham Bonnett, con i quali incide l'album Disturbing the Peace. Dal 1986 al 1989 suona per David Lee Roth, registrando gli album Eat 'em and Smile (1986) e Skyscraper (1987).
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Nel 1989 e 1990 sostituisce l'infortunato Adrian Vandenberg nei Whitesnake, una delle leggende del rock britannico, poco prima che questi iniziassero le registrazioni dell'album e il tour mondiale per Slip of the Tongue. Vandenberg si era infortunato un polso provando alcuni esercizi che aveva trovato in un libro.
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Steve Vai continua a suonare in concerto regolarmente, sia con il suo gruppo che con il suo amico e maestro di chitarra di un tempo, come lui vincitore del Grammy Awards, Joe Satriani, nella serie di concerti denominata G3 iniziata nel 1996.
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La musica di Steve Vai è presente in diversi film. Lui stesso è apparso sul grande schermo in un film del 1986 con Ralph Macchio intitolato Mississippi Adventure (Crossroads, di Walter Hill), nel quale recitava la parte di Jack Butler, un chitarrista ispirato dal demonio. Nel momento saliente del film, Vai si impegna in un duello chitarristico con Macchio. La parte di quest'ultimo è doppiata da Vai stesso, mentre la parte di "slide guitar" è interpretata da Ry Cooder come ammesso da un'intervista di Steve Vai.Ha inoltre partecipato all'esecuzione della colonna sonora del film Fantasmi da Marte di John Carpenter insieme agli Anthrax e a Buckethead.
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La composizione pseudo-classica-barocca in trentaduesimi (intitolata Eugene's Trick Bag) con la quale Macchio vince la competizione è stata scritta da Vai, che si è basato pesantemente sul Capriccio Op.1 #5 di Niccolò Paganini, ed è diventata uno dei brani preferiti da molti chitarristi apprendisti. Vai ha vinto un Grammy Award nel 1991.
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Mentre il contributo di Vai al materiale di altri è stato limitato dallo stile rock o heavy-rock dei gruppi per cui ha suonato, la sua musica di tanto in tanto sembra richiamare l'esoterismo. Vai è un apprezzato produttore musicale: possiede infatti due studi di registrazione, "The mother ship" e "The harmony hut", e le sue registrazioni combinano la sua distintiva abilità nelle nuove composizioni con un considerevole utilizzo di effetti in fase di registrazione.
Steve Vai possiede la Favored Nations, una compagnia di registrazione e pubblicazione specializzata nel prendersi cura di nuovi talenti o di artisti di alto profilo di tutto il mondo
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Vai è promotore per la Ibanez dal 1986, e l'anno successivo è stata prodotta la prima JEM, la sua chitarra firmata. Esistono diversi modelli di JEM, la più nota è la JEM7VWH, nata nel 1993, dal corpo bianco col battipenna in madreperla e meccaniche dorate, che è quella che ha scelto di usare in pianta stabile ormai da quando è uscita. La sua JEM7VWH personale è chiamata EVO. Caratteristiche uniche della Ibanez JEM sono: una sorta di maniglia intagliata nella parte superiore del corpo, chiamata Monkey Grip; una scanalatura nella cavità che alloggia il ponte, chiamata Lion's Claw e l'intarsio di madreperla raffigurante l'albero della vita che percorre tutta la tastiera (presente però non su tutti i modelli). Queste chitarre impiegano una configurazione humbucker-single coil-humbucker dei pick-up. I pickups utilizzati da Vai sulla JEM sono stati studiati apposta per lui dalla DiMarzio: gli humbuckers sono PAF Pro per i modelli dal 1987 al 1992 circa, gli Evolution (Neck & Bridge) per i modelli dal 1993, e i Breed (Neck & Bridge) sui modelli JEM7DBK e JEM2KDNA. Il single centrale è sempre un JEM Single.
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Tra gli altri modelli di JEM esistenti di particolare rilevanza la JEM2KDNA: è un modello ad edizione limitata (ne esistono solamente 300 esemplari al mondo, ognuno col suo numero di serie e un certificato inciso su una placca di metallo firmato dallo stesso Vai), caratteristica principale è il corpo della chitarra che presenta dei "vortici" di colore (swirls) fatti con una particolare tecnica che rende ognuno dei 300 modelli diverso dall'altro. La sigla 2KDNA dipende dal fatto che insieme alle vernici di diversi colori usate è stato mischiato del sangue dello stesso Steve Vai: si dice circa due pinte (~1 litro) per i 300 modelli.
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Vai è considerato uno dei migliori chitarristi di ogni epoca. È spesso conosciuto per il suo tapping ritenuto tra i migliori del mondo. Il suo stile solistico è caratterizzato da un impressionante padronanza del legato e della leva, di quest'ultima tecnica riconosciuto come il migliore al mondo, che utilizza per effettare le note. Sebbene la sua conoscenza musicale sia molto vasta, predilige il modo lidio nell'improvvisazione. Il mondo musicale di Frank Zappa ha influito decisivamente sulle peculiarità chitarristiche di Vai e sulla sua concezione di dissonanze e scale modificate. Sebbene tendente più al rock che al metal, la sua influenza su tale genere è innegabile. Altra capacità "scherzosa" di Steve Vai è di far "parlare" la sua chitarra (vedi il brano "Tobacco Road" dell'album Eat'em and Smile con David Lee Roth, nel cui sembra fargli dire "Tobacco").
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Discografia:
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Solista
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1984 - Flex-Able
1984 - Flex-Able Leftovers
1990 - Passion and Warfare
1993 - Sex and Religion
1995 - Alien Love Secrets
1996 - Fire Garden
1999 - The Ultra Zone 2000 - The Seventh Song
2001 - Alive in an Ultra World
2002 - The Elusive Light and Sound, Vol. 1
2003 - Mystery Tracks, Vol. 3
2003 - The Infinite Steve Vai: An Anthology
2005 - Real Illusions: Reflections
2007 - Sound Theories
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Con Frank Zappa
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1981 - Tinsel Town Rebellion
1981 - You Are What You Is
1981 - Shut Up 'N Play Yer Guitar
1982 - Ship Arriving Too Late to Save a Drowning Witch
1983 - The Man From Utopia
1984 - Them Or Us
1984 - Thing-fish
1985 - Meets the Mothers of Prevention
1987 - Jazz From Hell
1988 - Guitar
1988 - You Can't Do That On Stage Anymore, Vol 1
1989 - You Can't Do That On Stage Anymore, Vol 3
1991 - You Can't Do That On Stage Anymore, Vol 4
1991 - As An Am
1992 - You Can't Do That On Stage Anymore, Vol 5
1992 - You Can't Do That On Stage Anymore, Vol 6
1996 - Strictly Commercial 1997 - Have I Offended Someone?
1998 - Cheap Thrills 1999 - Son of Cheep Thrills
2001 - FZ Original Recordings; Steve Vai Archives, Vol. 2
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Con i Whitesnake
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1989 - Slip of the Tongue
1994 - Greatest Hits
2000 - The Back to Black Collection
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Con David Lee Roth
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1986 - Eat'em and Smile
1987 - Skyscraper
1997 - The Best of David Lee Roth
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Con i G3
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1996 - G3: Live in Concert
2004 - G3: Rockin' in the Free World
2005 - G3: Live in Tokyo
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Altre collaborazioni
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1983 - Lisa Popeil - Lisa Popeil
1985 - Heresy - At The Door
1985 - Public Image Limited - Compact Disc
1985 - Alcatrazz - Disturbing the Peace
1986 - Bob Harris - The Great Nostalgia
1986 - Shankar & Caroline - The Epidemics
1986 - Randy Coven - Funk Me Tender
1986 - Western Vacation - Western Vacation
1989 - Vari Artisti - Guitar's Practicing Musicians
1990 - Rebecca - The Best of Dreams
1991 - Alice Cooper - Hey Stoopid
1993 - Vari Artisti - Zappa's Universe
1995 - Vari Artisti - In From The Storm
1996 - Vari Artisti - Songs of West Side Story
1996 - Wild Style - Cryin'
1997 - Munetaka Higuchi with Dream Castle - Free World
1997 - Vari Artisti - Merry Axemas - A Guitar Christmas
1997 - Vari Artisti - Angelica
1998 - Gregg Bissonette - Gregg Bissonette
1998 - Al DiMeola - The Infinite Desire
1999 - Joe Jackson - Symphony No. 1
2000 - Gregg Bissonette - Submarine
2000 - Thana Harris - Thanatopsis
2001 - Robin DiMaggio - Blue Planet
2001 - Billy Sheehan - Compression
2001 - Vari Artisti - Roland Guitar Masters
2002 - Vari Artisti - Guitars For Freedom
2002 - Vari Artisti - Warmth In The Wilderness Vol. II - A Tribute to Jason Becker
2003 - Surinder Sandhu - Saurang Orchestra
2003 - The Yardbirds - Birdland
2003 - Eric Sardinas - Black Pearls
2003 - Steve Lukather & Friends - SantaMental
2003 - Glenn Hughes e Joe Lynn Turner - HTP2
2003 - Shankar & Gingger - One In A Million
2004 - Motörhead - Inferno
2004 - Bob Carpenter - The Sun, The Moon, The Stars
2004 - Mike Keneally - VAI Piano Reductions Vol. 1
2005 - Vari Artisti - The Sounds of NASCAR
2005 - John 5 - Songs for Sanity
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martedì 3 giugno 2008

....Addio vecchio Bo.... e grazie del rock


2 giugno 2008 - Bo Diddley, uno dei pionieri del rock 'n' roll, si è spento all'età di 79 anni a Jacksonville, in Florida, al termine di una lunga malattia.
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Diddley era diventato famoso nel 1955 con il suo primo disco, 'Bo Diddley' basato su ritmo serrato che era diventato poi il tema di fondo di quasi tutte le sue canzoni. Anche il 'lato B' del suo primo disco, ''I'm a Man', era diventato un successo immediato.
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Bo Diddley, che si presentava in pubblico con la sua inseparabile chitarra, occhiali neri e cappello nero, era da tempo in cattive condizioni di salute. Nell'agosto scorso aveva avuto un attacco di cuore, tre mesi dopo essere stato colpito da un ictus mentre era impegnato in un tour di esibizioni in Iowa. L'ictus aveva danneggiato la sua capacita' di parola e si stava sottoponendo da mesi a terapia di riabilitazione.
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Se Elvis era la voce e l'immagine dell'infanzia Rock'n'Roll, Bo Diddley - insieme con l'amico-rivale Chuck Berry - ne era la musica: ma dato che il bambino ribelle della musica occidentale venne adottato dalla comunità bianca e il resto è storia, il manto di "Re" è finito sulle spalle del performer Presley mentre l'autore Ellas McDaniel, in arte "Bo Diddley", si è dovuto accontentare di passare alla storia per aver inventato il ritmo che porta il suo nome, il che per un musicista rimane pur sempre una bella soddisfazione.
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Nato nel 1928 nel Mississippi, lasciò la carriera di carpentiere fulminato sulla via di Chicago da John Lee Hooker, ed insieme a Berry fu uno dei chitarristi che prepararono la mutazione che nei primi anni Cinquanta portò dal blues al rock and roll: suo marchio di fabbrica è il "Diddley beat", il particolare ritmo poi imitato da tutte le band degli anni Sessanta, Rolling Stones in testa; tanto che spesso le sue canzoni sono su un solo accordo e a variare è solo l'intensità dell'accompagnamento.
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La sua immagine bizzarra - compresa la chitarra rettangolare, prima autocostruita alla quale seguirono copie fabbricate dalle marche più importanti come la Gretsch - e i testi spesso umoristici gli valsero anche la conquista di una fetta di mercato "wasp": il crossover gli permise di partecipare anche all'Ed Sullivan Show - dove, invece di cantare il tradizionale "Sixteen tons", eseguì la sua omonima "Bo Diddley", suscitando le ire del presentatore.
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Bo fu tra i primi artisti di rock and roll ad avere nel suo gruppo una presenza femminile - la più famosa delle quali è Norma Jean Wofford, alias The Duchess, chitarrista altrettanto brava - e tra i primi a costruirsi in casa uno studio di registrazione.
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Nel periodo che va dal 1954 al 1963 - anno in cui girò l'Inghilterra conquistando numerosi adepti tra i quali Yardbirds e Pretty Things - compose numerosi hit: "500% more man", "Hey Bo Diddley", "Mona (I need you baby)", "Road runner", "I'm a man", "Who do you love", "You can't judge a book by its cover", per un totale di ben 11 album. Nei decenni successivi continuò a esibirsi, da solo o a fianco di altre leggende che non si lasciavano scappare la possibilità di averlo sul palco: Grateful Dead, Tom Petty and the Heartbreakers (che avevano sempre una canzone di Diddley in scaletta).
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Addio caro vecchio Bo, grazie di tutto, e mi raccomando, imbraccia la tua bella chitarra rettangolare e stendi tutti anche lassù....