venerdì 27 giugno 2008

Grande ritorno dei Jethro Tull, Occasione ghiottissima....

L’occasione è doppia e, inutile dirlo, ghiottissima. Anzi, irrinunciabile. Una nuova calata dei folletti di Ian Anderson in Italia (tra le tappe Roma e Milano alla Milanesiana), e l’attesissima ristampa dell’esordio storico dei Jethro Tull: This Was.Ristampa, eccezionale, curatissima e oggetto preziosissimo, studiata e voluta dalla Emi Music nell’ottica di un rilancio (una riscoperta, un doveroso studio) di quello che, ad oggi, è uno dei più grandi gruppi rock della storia.
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Partiamo proprio da This Was, prima di concederci il lusso di un volo radente sulla prima parte della vita artistica del gruppo: quello che ne ha costruito l’ossatura e ne ha fatto la fortuna, sia in termini di successo e di fama che in termini artistici.
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Quindi procediamo con ordine: Collochiamo storicamente i Jethro Tull e This Was. Inghilterra, fine anni Sessanta, in piena blues revolution. Il Regno Unito è un’esplosione di musica nera, declinata in ogni sua forma possibile. Gli angoli delle strade, i pub, le venues, qualsiasi luogo riflette una ricerca spasmodica del culto blues, dell’elettricità, del calor bianco di una musica che sta attraversando cervello e cuore di gente come gli Stones, gli Yardbirds, i Pretty Things. In questo periodo si gettano le basi fondamentali per quello che sarà, in seguito, l’asse portante del rock britannico.
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Per almeno due decenni. Il blues parla un linguaggio incredibile, e genera mostri ad ogni istante: si aggira per le strade londinesi un signore, a nome Eric Clapton, che sta facendo miracoli. E sta traducendo la più classica delle culture nere, in qualcosa di bianco e “crossover”. Crossover Antelitteram. Prima dell’arrivo di Dylan e della sua All Along The Watchtower. This Was lancia nel mondo musicale i Jethro Tull. Lasciando tutti a bocca aperta. Quasi una cometa, o forse una meteora (ma la storia dirà esattamente la prima cosa). Qualcosa che stupisce, affascina, ma quasi disturba. E l’elemento di disturbo è subito chiaro a tutti.. C’è un folletto, sul palco, che si chiama Ian Anderson e suona il flauto. Il flauto? Panico tra la folla.
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Critica spiazzata. Che s’interroga tra i bisbigli generali.Un passo indietro. La formazione di rock blues, quella standard, quella riconosciuta nel mondo, quella che in quel preciso momento l’Inghilterra codificava come l’unica possibile, era composta classicamente da basso, batteria, chitarra e voce. Addirittura, nascevano i power trio, con il cantante in veste di chitarrista o bassista.
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Trovarsi un flautista sul palco era certo una cosa totalmente inaspettata. Un elemento culturale di rottura. Bene. Questo aiuterà a capire. Poi veniva la musica di This Was. Un disco che, sì, risentiva chiaramente di quell’esperienza così straripante del blues (Some Day My Light Won’t Shine è, di fatto, uno standard blues riconoscibilissimo) e s’inseriva nelle primi vagiti dell’Hard Rock Blues di classe (su tutti il capolavoro Cat Squirrel) ma inseriva un elemento nuovo, incredibilmente fresco, stordente, come appunto la conduzione fiabesca di un flauto che riportava il blues alla musica classica e, nel contempo, al prog folk. Il concetto era molto chiaro: un gruppo che, dalla sintesi di classica, rock, musica popolare, folclore, riusciva a rielaborare una forma completamente nuova e narrativa come niente, al mondo, lo era.
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C’erano piccole influenze jazz, ma non era quello che contava. Era, più di tutti, quel modo di “parlare” il rock, di fabulare, che lasciava a dir poco attoniti. Ian Anderson (perfettamente rappresentato nella bellissima foto d’interno copertina di This Was) sembrava un clochard un po’ matto, catapultato da qualche invenzione narrativa di Perrault, pronto a sedurre e condurre alla perdizione il popolo della musica. Uno gnomo satanico e famelico, destinato a recitare la parte del male.
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In questo, meraviglioso è il booklet interno che racconta la storia e la nascita dei Jethro Tull, regala foto bellissime ed aneddoti curiosissimi (tra i quali la storia del flauto di Ian Anderson, barattato per una Stratocaster che finì poi nelle mani di Lemmy dei Motorhead) oltre che un bonus Cd fantastico, pieno di registrazioni live e di outtake dell’epoca.
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Il gruppo si proiettò verso l’infinito con l’uscita del secondo album Stand Up nel quale trionfava sovrana una cover, nientemeno, di Bach. Bourée fu un azzardo talmente riuscito, da lanciare il gruppo in tutto il mondo. Nessuno aveva mai osato. Nessuno era mai arrivato a tanto. Nessuno l’aveva mai fatto così perfettamente. Stand Up non fu solo importante per quello. C’era una canzone, una lunga e delicatissima canzone, che da sola spiegava più di ogni altra cosa, chi fossero i Jethro Tull veramente: Jeffrey Goes To Leicester Square, il perfetto equilibrio tra il prog, il pop e i folk. Insomma, uno specchio fedele di un gruppo che imponeva il suo marchio di fabbrica a tutti. I Jethro Tull ora erano una divinità.
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Talmente potente da sopravvivere anche al passo falso (troppo jazzato, troppo forzosamente complicato) di Benefit, salvo poi regalare la coppia d’assi, i due dischi fondamentali della loro carriera: Acqualung e Thick As A Brick, rispettivamente nel 1971 e nel 1972. Nessuno capì mai come una band, nel breve volgere di due anni, avesse potuto concepire, scrivere e suonare due album di tale livello. Due album consegnati, con This Was, dritti dritti alla storia del rock. Acqualung era la perfezione del concetto Tulliano. C’era Cross Eyed Mary, canzone talmente potente da diventare, pensate, punto di partenza per un gruppo così stilisticamente differente come gli Iron Maiden che, 15 anni più tardi, proprio da quelle ritmiche cominciarono il loro percorso di costruzione dell’Heavy Metal. C’era Aqualung, la title track, in cui Bach e Mozart si scontravano meravigliosamente con il folk crudissimo dell’Europa medioevale, e con il blues minimale di Robert Johnson.Un disco di una portata talmente epocale, da ottenere la giusta dimensione critica solo dopo vent’anni di discussioni fra le penne storiografico musicali del pianeta.
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E mentre si discuteva sulla reale portata e sul valore storico della band inglese, il gruppo volava verso Thick As A Brick. Thick As A Brick fu la massima espressione del prog intellettuale e sofisticato (in compagnia degli Yes e dei Genesis del trittico storico Foxtrot, Nursery Crime, Selling England By The Pound) e fu anche l’ultimo capolavoro dei Jethro Tull, prima di un lungo blackout artistico. Thick as A Brick chiudeva un’epoca, e lo faceva innalzando ad arte la struttura del concept album (tanto in voga negli anni settanta e caratterizzato da un’unica trama narrativa cui il disco dava forma musicale. Una sorta di letteratura in musica, con canzoni legate fra loro da un tema e da una storia).
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Dopo Thick As A Brick il doppio antologico Living The Past e poi, momenti di calo alternati a momenti di grande euforia. Ma ciò che conta nella storia dei Jethro Tull, è tutta qui.
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Ora sta a voi: partire con la fondamentale ristampa di This Was, continuare nel percorso discografico e godervi, dal vivo, il ritorno di un mito. Assoluto.

4 commenti:

Giampaolo ha detto...

bè insomma i Jethro tull dopo il 72 hanno fatto dei lavori stupendi....mai ascoltato "Minstrel in the Gallery"????
Evidentemente no...
ciao!

lozirion ha detto...

@Giampaolo: Ma certo che si! Lungi da me dire che album come "Minstrel in the Gallery" o "Heavy horses" (che secondo me è ancora meglio) siano brutti album, anche perchè una Band come i Jethro Tull è difficile che faccia "brutti" lavori....

Qui si parla di black out artistico perchè per quanto possa essere bello un album come quello che citi tu, una volta usciti quei 2 capolavori che sono "Acqualung" e "Thick As A Brick", tutto quello che viene dopo sembra essere un continuo per inerzia, un qualcosa di bello, molto bello sicuramente, ma che non rispecchia in pieno lo spirito del gruppo, o perlomeno non come i 2 lavori precedenti, e l'emblema è il primo di questi album, "A passion play", un disco a sè stante, e a sè meraviglioso, ma allo stesso tempo incredibilmente complesso, forse il più complesso di tutti, controverso, difficilmente interpretabile perchè le allegorie e le metafore sono talmente tante che ci si perde....

Ps. Tra l'alro se ti interessa c'è un'altra occasione ghiottissima, il 4 luglio Ian Anderson e soci sono in concerto a Bergamo, non so quanto sia raggiungibile per te, ma è un'occasione che non so se ricapiterà.... ^_-

Giampaolo ha detto...

Non sono assolutamente d'accordo con te. Francamente è anche un pò contradditorio quello che dici....il punto è che a te piacciono i primi Jethro Tull e non i successivi (da quello che ho capito dal tuo commento).."Heavy Horses" non è brutto, ma "Songs from the Wood" è di un altro pianeta e anche "Minstrel in the gallery" un album rock in stile Jethro Tull, semplicemente geniale.......comunque de gustibus.....
Andrò a vederli a SArroch il primo luglio, fanno qui in Italia quattro o cinque date.....probabilmente farò una recensione nel mio blog superprogressive.splinder.com
se vuoi facci un salto.....
Ciao!

lozirion ha detto...

@Giampaolo: Bè, sicuramente mi piacciono di più i primi Jethro Tull che i successivi, non è che non mi piacciono, anzi, è sempre un piacere ascoltarli, però forse l'immagine che ho io del gruppo è più accostabile ai primi album, chissà, magari dopo averli visti dal vivo sarò della tua stessa opinione.... ^_^

Vado subito a fare un giretto sul tuo blog! (Già il nome mi attira parecchio.... ^_^)

Ciao!