venerdì 27 gennaio 2012

Emozioni indie in salotto


Ci sono storie che partono da lontano, molto lontano, ma che nonostante il passare del tempo mantengono intatto il loro fascino. E' il caso di molte leggende, quelle classiche del mondo ellenico, quelle nordiche, forse ancor più dense, e di quelle di casa nostra, nel nostro caso in particolare di una leggenda siciliana risalente al quattordicesimo secolo ma probabilmente molto più antica: la leggenda di Nicola, figlio di un pescatore messinese, talmente abile nel muoversi in acqua da essere soprannominato Colapesce, e la cui fama arrivò alle orecchie del re di Sicilia che decise di metterlo alla prova. Qui le versioni come in ogni leggenda che si rispetti si dividono sul modo in cui il re lo mise alla prova e su quel che Colapesce vide nella sua ultima immersione, ma quel che vide fu talmente terrificante e pericoloso per l'intera isola che Colapesce non risalì mai più, sacrificando sè stesso per superare la prova postagli dal re secondo alcune versioni, e per altre, le più affascinanti, trasformandosi in una creatura marina che ancora oggi impedisce alla Sicilia di essere inghiottita dalle acque del Mediterraneo.

Leggenda intensa e personaggio ricco di suggestione Colapesce, tanto da indurre Lorenzo Urciullo, cantante, musicista e produttore, nonchè voce e leader degli Albanopower, ad acquisirne il nome per la sua prima sfida solista sulla lunghezza del Long Playing. Dopo le grandi aspettative createsi a seguito di un primo EP omonimo uscito nel 2010 infatti l'artista siciliano si affaccia proprio oggi sui negozi di dischi sotto il fascinoso nome di Colapesce con un album di 13 brani in bilico tra inquietudine e malinconico surrealismo sul filo di un cantautorato tipicamente italico intriso di sonorità indie e influenze quasi shoegaze.

"Un meraviglioso declino", questo l'emblematico titolo dell'album, che palesa l'aura a tratti naif che pervade l'intero disco e una voglia di sfuggire a convenzioni e immaginari ben precisi lasciandosi andare a sognanti e metaforiche interpretazioni della quotidianità. Il talento compositivo di Urciullo è evidente, così come evidente è l'impronta fortemente poetica ed espressiva data ad ogni brano, con una quasi maniacale attenzione verso la ricchezza testuale che chiama un paragone con Marlene Kuntz, Max Gazzè, Paolo Benvegnù e tutta quella cerchia di artisti e gruppi della scena indie italiana che hanno fatto della densità ed efficacia dei testi la propria linea guida. Urciullo racconta di piccole realtà di tutti i giorni utilizzando metafore spesso estremamente criptiche, dipingendo così scenari a primo acchito surreali ma che lasciano addosso sensazioni ed emozioni che cullano e trasportano in una dimensione di eterea familiarità in cui si parla di amori fatti anche di niente, e seduti su un divano si racconta di paura dei barbari che "stanno per arrivare" e di quell'amore finito che ti faceva sentire "come un gruppo metal in un locale vuoto con due vecchi al bancone", guardando fuori dalla finesta la notte che "s'illumina".

"Un meraviglioso declino" è un vecchio e polveroso album di pagine bianche che durante l'ascolto si riempiono di fotografie e ricordi ogni volta diversi, è un malinconico guardarsi dentro e guardare il mondo dal proprio salotto, uno sfuggire a realtà troppo grandi e inconsistenti per riscoprire la denistà di una realtà a dimensione propria. In questo senso la ciliegina sulla torta sono le linee melodiche azzeccatissime su cui si appoggiano le parole sussurrate e quasi soffiate di Urciullo e una musicalità che prende spunto tanto dal classicismo della storica canzone d'autore italiana quanto da influenze alternative molto più moderne che richiamano sonorità care a band come Wilco e Fleet Foxes, tanto per citarne un paio; merito di una squadra d'eccezione che vede in regia Giacomo Fiorenza, già produttore di Giardini di Mirò, I cani, Moltheni e molti altri, agli strumenti Giuseppe Sindona, Toti Valente e Francesco Cantone assieme a illustri ospiti come Sara Mazo (ex Scisma), Alessandro Raina (Amor Fou) e Andrea Suriani, ma soprattutto agli arrangiamenti l'estro e la genialità di Roy Paci. A completare l'escapismo dell'album, per la realizzazione è stato scelto l'analogico, per pubblicare su vinile e cd un album registrato, come la stessa casa di produzione ci tiene a dire, "come si faceva una volta, in analogico, con apparecchiature di quaranta e più anni fa", una scelta ben precisa che però risulta coerente con lo spirito dell'album.

In un panorama, quello della musica indie, che ormai troppo spesso si lascia influenzare da logiche di mercato da una parte e una sorta di "radical-chicchismo" spocchioso dall'altro spicca un album denso e onesto, di un artista dalle indiscusse abilità oggettive e dall'animo estremamente poetico, che, con rispetto ma senza timori reverenziali, si accosta fieramente a nomi importanti della musica d'autore italiana, portando speranza a un genere purtroppo troppo spesso lasciato da parte a favore di facili guadagni, e che sicuramente non riempirà gli stadi, ma consapevolmente si accontenta di riempire il salotto, e soprattutto il cuore.

Voto: 8

Tracklist

 1. Restiamo A Casa
 2. Satellite
 3. La Zona Rossa
 4. Un Giorno Di Festa
 5. Oasi
 6. Le Foglie Appese
 7. Quando Tutto Diventò Blu
 8. I Barbari
 9. La Distruzione Di Un Amore
10. I Sottotitoli
11. S’illumina
12. Il Mattino Dei Morti Viventi
13. Bogotà

mercoledì 25 gennaio 2012

Bentornati ragazzi!




Firenze, 17 gennaio 2012, in Via De' Bardi al civico 32 qualcosa si muove, la vibrazione di un jack che si collega mette elettricità nell'ambiente, uno stivale nero con fibbia d'acciaio batte il tacco a terra e una voce urla "un, do, tre qua!", e un assolo al fulmicotone squarcia l'aria sbattendo via dalle pareti della sala prove una polvere vecchia di quasi vent'anni.... Sono tornati, ora, que viva, el bandido Litfibaa!

E' così, affiancati dai validissimi Daniele Bagni, Pino Fidanza e Federico Sagona rispettivamente a basso, batteria e tastiere, tornano Piero e Ghigo, braccio e cuore di una delle band più amate/odiate del panorama rock italiano. Tornano dopo la reunion del 2009, a ben 13 anni dall'ultimo album di inediti con Pelù alla voce. Nel 1999 usciva "Infinito", album molto criticato per l'eccessiva leggerezza e che sancisce una rottura all'interno della band, dopo la quale Pelù decide di dedicarsi alla carriera solista mentre Renzulli porta avanti il nome della band e il percorso artistico intrapreso all'inizio degli anni '80. Nessuno dei due progetti riesce però a prendere veramente il largo, perchè a Piero manca con i musicisti l'intesa vincente che c'era con Ghigo e a Ghigo manca l'indiscussa verve di Piero, così nel corso degli anni i due tornano pian piano a suonare insieme, e riprendono in sordina lo stesso sentiero che avevano abbandonato nel '99, fino ad arrivare all'ufficiale rientro in formazione di Pelù e al conseguente tour nei palasport in cui sono stati volutamente esclusi tutti i brani dei Litfiba a partire da "Infinito" e quelli della carriera solista di Pelù. Un messaggio forte, non tanto per l'esclusione dei brani delle carriere separate, ma soprattutto per i brani di "Infinito", sintomo che il desiderio è quello di chiudere in un cassetto le pagine poco ispirate del passato e riprendere da dove il discorso era stato realmente abbandonato. Come spesso accade in questi casi però i dubbi prima dell'uscita dell'album erano tanti, perchè queste reunion puzzano sempre di mossa di marketing, e un nuovo album dopo 13 anni porta con sè il rischio da una parte di essere troppo ambizioso e finire per risultare un flop e dall'altra di rivelarsi la solita minestra riscaldata e autocelebrativa che vende ma artisticamente vale meno di zero. Dubbi legittimi che Piero e Ghigo fugano prepotentemente con 10 brani pregni di rock graffiante, rabbia e scariche elettriche.

Già dall'incipit è chiaro il ritmo che i Litfiba hanno voluto dare a questo nuovo lavoro, così come evidenti sono i due aspetti apparentemente contrastanti che compongono la ricetta vincente dell'album e che riguardano il percorso della band negli ultimi 20 anni. Nel 1990 iniziava per i Litfiba un periodo particolare, una sorta di seconda nascita dopo l'esplosione iniziale e dopo album essenziali come "Desaparecido", "17 re" e "Litfiba 3". Tutto comincia con il passaggio della leadership a tutti gli effetti in mano all'accoppiata Renzulli-Pelù, e con l'inizio di un processo di evoluzione stilistica del sound, con cui il gruppo sposta il baricentro musicale dalla dark-wave degli inizi sempre più verso il rock, e grazie al quale i Litfiba pubblicano la cosiddetta "Tetralogia degli elementi", l'insieme di quattro album ognuno dedicato a uno dei quattro elementi alla base dell'essere, "El diablo" che ovviamente rappresenta il fuoco, "Terremoto" che celebra idealmente la terra, "Spirito" per l'aria e infine "Mondi sommersi", che non può che essere dedicato all'acqua. I singoli brani degli album, la loro genesi e il percorso musicale della band durante gli anni tra il 1990 e il 1997, periodo di pubblicazione degli album, sintetizzano meglio di qualsiasi altra cosa l'essenza dei Litfiba di Piero e Ghigo, pronti a lanciare provocazioni e critiche al sistema e agli stereotipi quanto a diventare più intimisti e riflessivi, capaci di partire dal rock puro e plasmarlo in funzione del messaggio che deve essere mandato, infarcendolo di metal, punk, elettronica, sonorità latine e sound più ricercati, arroganti quanto basta per conquistare il pubblico e coraggiosi quanto basta per affrontare tematiche sociali e "fastidiose", in continua evoluzione ma saldamente ancorati ai loro principi, due su tutti l'antimilitarismo e il rifiuto della violenza. Questi principi e un ritrovato spirito da rocker stanno alla base del nuovo lavoro, in cui i Litfiba riescono a riprendere le tematiche a loro care e un sound di cui con il tempo e la scissione avevano perso le redini. Se da una parte il legame con il passato e una sorta di "ritorno alle origini" c'è, dall'altra il gruppo ha il coraggio di non abbandonarsi a facili cloni dei propri successi e di guardare avanti e pubblicare un album artisticamente onesto e per nulla autocelebrativo.

"Grande nazione", questo il titolo chiaramente ironico dell'album che si riferisce all'Italia malridotta e corrotta in cui viviamo e che introduce il tema della critica sociale che sta al centro dell'intero disco. A chiarire tutto il resto ci pensa il primo brano, "Fiesta tosta", candidata fino all'ultimo per dare il titolo all'intero album e che si riferisce chiaramente alle festicciole del nostro ex premier e al Bunga-Bunga che ha spopolato per mesi su giornali, internet e tv, stampa violentemente nelle orecchie il marchio di fabbrica della premiata ditta Pelù-Renzulli dal primo secondo, con il primo a urlare "un, do, tre qua!" e il secondo a far partire la prima tremenda scossa dalle sei corde all'amplificatore con un riff che entra subito in testa e riporta alla mente quando nel '93 analogamente un grandissimo riff seguiva la voce graffiante di Pelù che urlavaa "O Terremoooto!!!". L'analogia con il passato, in particolar modo con "Terremoto", si sente nell'intero album ma non prende mai davvero piede, rimanendo soltanto una sorta di "suono distintivo" della band, una "traccia emotiva" mai invasiva. Il secondo brano è il singolo che qualche tempo fa ha anticipato l'uscita dell'album e che come al solito risulta il meno interessante dell'intero disco, "Lo squalo", brano dalle venature quasi metal che parla degli squali dei nostri tempi, i traghettatori della finanza, quelli che "Io mangio mangio perchè ho il coraggio, perchè sono l'opportunista a corto e lungo raggio". Quasi seguisse la legge del contrappasso dopo il brano peggiore dell'album arriva a chiudere la prima terzina quello che si candida ad essere il più interessante, "Elettrica", ballad carica che in perfetto stile Litfiba non porta con sè stucchevoli banalità, non c'è "Sole, cuore, amore", e non c'è "sei la mia tribù", c'è invece un vibrante sentimento che pervade l'aria e sconvolge, perchè le più belle parole sono quelle più inaspettate.

"Tra te e me", quarta traccia dell'album, è anche quella di più difficile interpretazione, per via di un testo perennemente in bilico tra fumosi concetti astratti e un chiarissimo "Fanculo quel che pensano gli altri!", e se ai primi ascolti subisce questa apparente inconsistenza, negli ascolti successivi prende qualche colpo anche sul versante della musicalità, risultando soprattutto verso il finale ridondante e quasi pomposa, nonostante un sempre affidabile Renzulli che non si risparmia nemmeno stavolta. A seguire arriva a mille all'ora "Tutti buoni", solido rock di contestazione verso un sistema corrotto e una classe politica che di politico ha ben poco e fatta di gente che in campagna elettorale spaccia promesse a destra e a manca e che poi puntualmente una volta raggiunta la poltrona se ne dimentica. Subito dopo, direttamente dall'ormai lontano 1983 arriva una ventata dark-wave con l'ispiratissima "Luna dark", rivisitazione arrangiatoria de "La preda", lato B del primo singolo in assoluto della band fiorentina, su cui si adagia un testo che dal cuore pulsante di Piero parte diretto alla figlia, a cui il brano è dedicato, con un cantato visceralmente sentimentale che entra sotto pelle senza bussare e conquista senza se e senza ma. Proprio quando i nervi sembrano sciogliersi la bestia Litfiba azzanna e si riparte con i botti veri, "Anarcoide" è fottutamente rock, combattiva, rabbiosa, graffiante, un violento cazzotto nello stomaco di un sistema lobotomizzante che sta stretto a chi ha il coraggio di urlare "Uso la mia testa, sono un rompicoglioni, sono un'altra cosa, fuori dal programma!", un pezzo energico e mordente che trova un seguito perfetto nella title track, che non abbassa il ritmo e soprattutto non cambia argomento, anzi rincara la dose incentrandosi su questa malridotta Italia e su tutto il marciume che la ricopre. "Grande nazione" è una mitragliatrice che spara colpi a raffica alla pessima politica, a una corruzione sfrontata che sembra aver preso il sopravvento, ma soprattutto alla malsana mentalità di una sempre più larga fetta di persone che si sentono italiane giusto allo stadio e per il resto si preoccupano soltanto di essere più furbi degli altri, di scaricare la colpa sul nemico di turno, gente che ha il coraggio di vantarsi della "Grande nazione" Italia che invece è ridotta ad essere "il paese dei balocchi per i ricchi, repubblica basata sulla furbata incentivata".

A portare altre scosse elettriche ci pensa "Brado", in cui viene fuori il rocker cafone e sprezzante che c'è in Piero Pelù, che alle regole e alle censure non ci sta e non ci vuole stare, Pelù è un cane sciolto per definizione, controcorrente per vocazione, "In direzione ostinata e contraria" come avrebbe detto il grandissimo Faber, pecora nera per attitudine (ve lo ricordate El diablo? "Si della famiglia io sono ribelle!"), un animale selvatico a cui le censure e le omologazioni stanno strette, un dito medio alzato, un arrogante "Fanculo!" urlato da una voce fastidiosa e nervosa che non ha paura di gridare che "Il mondo è una puttana che si vende a chi la paga di più". "Brado" è una bomba a mano, una scarica di adrenalina che preannuncia violenti poghi sotto il palco e scuote gli animi per poi lasciare il campo ai due densissimi brani a cui è affidata la chiusura del disco. Il primo, "La mia valigia", secondo singolo estratto dall'album, è l'unico vero, tremendo e nostalgico tuffo nel passato, a partire dal cantato di Pelù che arriva da lontano, così lontano da aver perso le speranze che tornasse, passando per l'arrangiamento che ricorda non poco pilastri della discografia della band come "Prima guardia" e "No frontiere" e che per i fan suona come un vero e proprio tuffo al cuore, finanche al tema principale, quello del viaggio, molto caro alla band dai tempi di Lacio Drom; "La mia valigia" è un inno a cuore aperto al viaggio come metafora e scelta di vita, con lo stretto indispensabile nella valigia e i sogni e il vento a fare il resto, un sentito e vibrante pezzo che già dal primo ascolto entra nelle vene e non se ne va più.... A chiudere l'album arriva la bonus track, "Dimmi dei nazi", semplice, lenta, densa di sentimento quanto è giusto che sia il ricordo di una delle più brillanti menti giornalistiche e letterarie del nostro tempo a cui è rivolto il brano, Fernanda Pivano, Nanda per chi la conosceva, morta ormai quasi due anni fa alla veneranda età di 92 anni e alla quale è dedicato il documentario "Pivano Blues - Sulla strada di Nanda" di cui proprio "Dimmi dei nazi" è colonna sonora.

"Grande nazione" è la sintesi di una band onesta, che ha vissuto periodi di grande ispirazione e successo, una frattura critica e una lenta rimarginazione della ferita. "Grande nazione" è la sintesi di Piero e Ghigo, un'accoppiata vincente ed esplosiva che ha affrontato alti e bassi, si è scissa e poi riconciliata, che ha toccato l'apice per poi crollare nel baratro, ma che alla fine ha trovato la forza di rialzarsi, certo un po' ammaccata, ma nuovamente pronta a colpire e a mettersi in gioco. Le aspettative su questo nuovo lavoro erano contrastanti, tra la speranza dei fan che speravano che tutto tornasse magicamente come 20 anni fa spazzando via il resto e la paura che i giochi ormai fossero conclusi e che una reunion tra Piero e Ghigo non sarebbe stata niente più che la classica mossa di marketing per portare soldi in cassa con il minor sforzo possibile. Con "Grande nazione" molte delle buone aspettative sono state esaudite, perchè questo album non ha niente da spartire con "Infinito", nè tantomeno con album come "Elettromacumba" o "Uomo di strada". Certo, di tempo ne è passato dall'ultima volta e parecchie cose sono cambiate, alcune in meglio e altre in peggio; Ghigo è sempre il solito Ghigo, non certo un grande virtuoso ma di contro un musicista energico quanto nessun altro in tutta Italia, una costante inamovibile, un vero e proprio muro portante, deciso e al servizio della squadra, il Gattuso della band, sempre pronto a mordere le caviglie e sopperire con le sue sei corde a qualche cedimento del suo ritrovato socio. Piero invece ha percorso strade completamente diverse e sarebbe stupido pensare che queste non lo influenzino. Una volta tornato nel branco il frontman ha potuto abbandonare le derive compositive intraprese durante la carriera solista, tornando ad occuparsi soltanto dei testi e lasciando la parte dell'arrangiamento al sempre fidato Ghigo, ma probabilmente il tempo passato l'ha un po' arrugginito e le metriche poppeggianti del Pelù solista sono evidentemente una bella gatta da pelare, così salvo poche vere perle, che comunque dimostrano che il buon Piero le grandi canzoni le sa ancora scrivere, i testi risultano principalmente abbastanza demagoghi, ben lontani dai tempi d'oro dei Litfiba e soprattutto dalle provocazioni, dai messaggi chiari e tondi e dalle frecciate taglienti che Pelù sapeva scagliare ai tempi di "Terremoto"; insomma, sui testi c'è ancora da lavorare, ma la base è solida e per i cedimenti ci si può sempre saldamente appoggiare al manico della Fender di San Federico Renzulli. C'è anche da segnalare un nuovo passo in avanti per Piero in quel che riguarda il cantato, che ora si è ripulito dai distintivi ma esagerati fronzoli diventando così più incisivo, cosa che a 50 anni non è certo semplice, sintomo che il ragazzo si applica. Resta comunque la consapevolezza di un gradito ritorno, il ritorno di una potente band che impara dalla sua storia e guarda avanti, prende ispirazione, e come non farlo, da una grande carriera senza cedere alle tentazioni di facili e scialbi remake narcisistici, anzi, rovesciando in questo lavoro frustrazione, rabbia, passione e sudore. La bestia Litfiba è una creatura in continua evoluzione, e 13 anni di buio non portano nient'altro che un po' di peso sulle spalle e una pelle più pesante, ma che Piero e Ghigo strappano a colpi di rock per lasciare spazio a quella nuova, pronta a prendere colpi e graffi, ma non a lasciarsi andare. Que viva, que viva, que viva, que viva!!

Voto: 7,5

Tracklist:


 1. Fiesta tosta
 2. Squalo
 3. Elettrica
 4. Tra te e me
 5. Tutti buoni
 6. Luna dark
 7. Anarcoide
 8. Grande nazione
 9. Brado
10. La mia valigia
11. Dimmi dei nazi (Bonus track)


lunedì 23 gennaio 2012

Vagando dentro: il disco d'esordio di Roberto Scippa



Selezionato tra i finalisti di Musicultura 2012, il giovane cantautore romano debutta con un album intenso ed emozionante. Tra canzone d'autore e West Coast un diario di viaggio di matrice acustica tra ricordi e speranze. Presentazione ufficiale dal vivo il 16 febbraio a Formello
Vagando dentro: il disco d'esordio di Roberto Scippa


RoberMusic
è lieta di presentare:

VAGANDO DENTRO

Il primo album di Roberto Scippa

RoberMusic
13 brani - 47 minuti


"Vagando Dentro è nato da un profondo e sincero bisogno di comunicare che col tempo ha preso la forma delle sue canzoni". Così Roberto Scippa presenta il suo disco d'esordio Vagando dentro: un diario di viaggio di matrice acustica tra sensazioni e pensieri rivolti al passato, al presente e al futuro. Roberto Scippa nasce a Frascati (Roma) nel 1980, i suoi ascolti sono precisi e immediati, fin dall'adolescenza: la canzone d'autore italiana e il folk-rock internazionale, De André, De Gregori e Bennato da una parte, Dylan, Springsteen e Cohen dall'altra. Queste due anime si fondono in una prospettiva acustica che Scippa ha portato avanti fin dai suoi esordi: le prime affermazioni dal vivo arrivano nel 2005, seguono i primi premi in concorsi e le prime esibizioni in festival, infine l'intensa pausa creativa dalla quale hanno visto la luce i 13 brani di Vagando Dentro.

Vagando Dentro è un'autentica sorpresa, che ha subito lasciato spiazzati alcuni addetti ai lavori. Secondo Massimo Sannella di Shiver "questo esordio ci lascia soddisfatti e pieni di voglia di essere altrove, è il buon responsabile di un qualcosa che ci rapisce immediatamente e che - una volta vaganti dentro queste tracce – sarebbe stupefacente non trovarne mai la via d'uscita. Stupendo”, mentre Ariel Bertoldo di Rockerilla considera i brani “tredici riflessioni agrodolci per un album d'esordio tra i più interessanti nel giovane panorama cantautoriale italiano"; Alessandro Basile di Caffè News ha scritto: "Vagando Dentro è un collage di grandi brani, che varrebbe ascoltare anche una sola volta per capire che non si esagera. E se ci scappa il brivido non c’è da stupirsi, vuol dire che siamo sulla buona strada".

L'album è suonato interamente da Roberto Scippa, che in alcuni brani ha avuto l'apporto di validi musicisti come Dodo Versino, Alessandro Giraldi, Matteo Bultrini e altri, la cui presenza non ha alterato l'obiettivo principale dell'autore, ovvero trasmettere a chi ascolta un taglio sonoro essenziale, spesso crudo e tagliente, ma anche intimista ed emotivo. Con l'uscita del disco arriva una bella notizia: Roberto Scippa viene ammesso alla fase finale delle audizioni live del prestigioso premio Musicultura. Il primo appuntamento dal vivo per il cantautore romano sarà giovedì 16 febbraio all'Abbey Road di Formello (Roma), con un concerto di presentazione ufficiale di Vagando Dentro.


Di seguito l'intervista a Roberto Scippa curata da Synpress44:

Come è nato il tuo percorso d'autore? 
È nato tutto molto naturalmente. Fin da piccolo la mia passione è sempre stata quella di scrivere (per capirci avete presente i “temini” a scuola? Ecco, in quelle 2-3 ore seduto al banco, nonostante la scuola,  me la godevo alla grande…). Poi a casa mia si è sempre ascoltata molta musica dato che mio padre suonava, e suona tuttora, la chitarra (principalmente blues) e mi ha in qualche modo iniziato, senza però forzarmi mai ad imbracciare lo strumento. Nello stereo e nel vecchio giradischi di casa giravano per fortuna spesso (anche per merito di mia madre) i grandi cantautori italiani e stranieri, alcuni dei quali mi hanno folgorato. A 13 anni senza pensarci troppo ho preso in mano una delle varie chitarre che avevo intorno (un'acustica Ibanez modello Concord degli anni '70) ed è iniziata l'avventura musicale che mi ha portato a cercare di riprodurre più fedelmente possibile quei riff e quei giri rock-blues ormai entrati nella storia.
Immediatamente ho però sentito anche la voglia di suonare e cantare insieme, come quei vari De Gregori, De Andrè, Dylan, Bennato che più di tutti mi emozionavano e ai quali mi sentivo più affine. Così con molta pazienza ho allenato dita e cervello fino a che, senza ricordare bene come, intorno ai 14 anni ho scritto la mia prima canzone, la prima di una lunga serie.
Con il tempo tutto è diventato più semplice, naturale, e allo stesso tempo gratificante perché avevo compreso che il godimento più grande stava nel riuscire a concentrare in poche frasi pensieri ed emozioni e a farli risuonare dentro una musica che attraverso la melodia si unisse perfettamente alle parole: insomma far incontrare questi due diversi linguaggi nel modo più magico possibile è diventata da allora la mia sfida più grande.

La tua proposta è essenzialmente acustica, qual è il motivo di questa scelta?

Per descrivere temi molto intimi - come quelli che si trovano nel disco, e che in generale mi piace affrontare - ho sentito da sempre più idonee le sonorità acustiche: si prestano  naturalmente ad un ascolto più “emotivo”, senza filtri musicali troppo invadenti.

Nella tua musica si percepiscono influenze strettamente cantautoriali italiane ma anche riferimenti stranieri, ad es. di area folk-rock. Quali sono gli artisti o i gruppi che ti hanno dato i maggiori stimoli e che consideri dei maestri?
Tra gli italiani citerei sicuramente De Gregori, De Andrè, Battisti, Dalla, Bennato, Rino Gaetano, Battiato, il“vecchio” Vasco, in parte anche il Banco del Mutuo Soccorso, fino ad arrivare ai gruppi della scena musicale più “alternativa” come gli Afterhours o i C.S.I. 
Tra i riferimenti stranieri ci sono sicuramente Dylan, Springsteen, Cohen, Young, Nick Drake, i Pearl Jam, Beck, la nuova scena indie-folk con i Bright Eyes e i Fleet Foxes, e in generale tutti i grandi classici del passato e del presente (Stones, Beatles, Pink Floyd, Radiohead etc..).
Difficile elencarli tutti: tutta la musica che ho ascoltato ha lasciato tracce più o meno evidenti.

In un tuo brano nascono prima le parole o prima la melodia?

Non seguo una regola fissa. A volte nasce prima il testo e poi su questo costruisco la musica.
In altre occasioni è il contrario e alcune rare miracolose volte viene fuori tutto insieme…
 
Nella tua composizione esistono dei temi ricorrenti oppure cerchi di affrontare tematiche diverse?
Sicuramente mi piace andare in profondità nelle cose in qualsiasi tema. Penso che gli argomenti in fondo siano sempre gli stessi per tutti e che sia il modo in cui vengono affrontati che differenzia i vari artisti. Ho sempre cercato di osservare con estrema attenzione sia me stesso sia la realtà che mi circonda e, un po' per gioco e un po' sul serio, mi piace coglierne e rivelarne i lati che reputo più interessanti ed emozionanti da raccontare. Mi potrei quindi definire un “esistenzialista” che tratta temi legati all'essere e alla ricerca interiore con cui ci si imbatte nel vivere quotidiano.

Raccontaci come è nato il disco Vagando dentro.
Vagando Dentro è nato prima di tutto da un profondo e sincero bisogno di comunicare che col tempo ha preso la forma delle sue canzoni. L’esperienza dal vivo come “cantautore”, maturata in più di due anni tra concerti e concorsi, mi ha spinto a credere sempre di più nella realizzazione di questo progetto musicale e nel desiderio di farlo conoscere. Il disco racchiude un po' tutte le canzoni che nel corso degli ultimi anni meglio di altre hanno rappresentato le diverse fasi della mia ricerca musicale, artistica, esistenziale. È un collage di tante parti di me che in qualche modo hanno costituito finora il mio “viaggio”… Da qui anche il titolo Vagando Dentro. Ha avuto una gestazione abbastanza lunga, praticamente due anni, anche perché, essendo per scelta un'autoproduzione, ho deciso di prendermela con molta calma.

Quali sono le tematiche di questo tuo ultimo album?
Le tematiche, come dicevo prima, sono legate alla ricerca interiore e a modo in cui vivo e viviamo in questa società: l'idea del tempo, il potere, la liberazione dalla paura, il lavoro, l'amore nelle sue varie forme... le solite insomma, antiche e sempre attuali.  

Il titolo del tuo nuovo disco suggerisce qualcosa di profondamente intimo, come mai questa scelta?
Non è stata una vera e propria scelta. Dal momento che penso di poter parlare solo di qualcosa che conosco ho iniziato il mio percorso artistico proprio dal mio mondo interiore. È da qui che nasce il “viaggio”, reale e sonoro: un vagare tra dimensioni invisibili e visibili, intime e collettive. Ho “scoperto” che il mio sentire è infatti simile a quello di molti altri - non invento nulla per così dire - e immagino sia per questo che ci sono persone che si ritrovano nelle mie canzoni.

Canzone al lavoro è uno dei brani più significativi, com’è nato?
È nato dal fatto che non avevo un lavoro... Scherzo ma non troppo! Il lavoro oggi è diventato - forse lo è quasi sempre stato - uno dei vari mezzi di sfruttamento legalizzato, totalmente alienato dalla sua funzione originaria che credo sia quella di realizzare l'essere umano e non di distruggerlo; per questo volevo dire la mia al riguardo.

Come ti esprimi meglio, in studio o dal vivo?
Sicuramente dal vivo ed è per questo che ho cercato di mantenere anche in studio un'attitudine molto “live”.

Come sta la canzone d'autore oggi?
Io penso che la situazione non è così disperata come qualcuno vuole dipingere. Oltre ai cantautori più o meno noti (tra i quali in effetti ce ne sono pochi che stimo veramente) c'è un gran movimento di nuovi artisti semi-sconosciuti che in un periodo critico come questo hanno parecchio da dire: credo che quando non hai nulla da perdere esca fuori la bellezza e dato che oggi per molti da perdere (almeno economicamente) c'è veramente poco sono molto fiducioso.





Informazioni:

Roberto Scippa su Facebook:
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Ufficio stampa Synpress44:
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giovedì 19 gennaio 2012

Sit-Rock: Live act


Ciao a tutti!

Tra non molto a Dio piacendo comincerò seriamente a pubblicare le recensioni che ho in canna, ma prima di tutto voglio lanciare la nuova sfida delle Sit-Rock....

Come avrete già capito stavolta si parla di concerti.... Si, perchè ci sono canzoni che ascoltate alla radio o da sotto un palco cambiano completamente, e canzoni che se già incredibili su disco diventano un'apoteosi dal vivo, ed è su questo campo che vi lancio il guanto di sfida....

Se vorrete raccoglierlo, come sempre la gara è sulla lunghezza delle 20 canzoni, e avete carta bianca su artisti, generi e tutto il resto, vi chiedo una lista di 20 pezzi che ascoltati dal vivo vi fanno scatenare o battere il cuore a mille, o semplicemente vi piacciono in quella precisa versione, in quel preciso concerto a cui siete stati o a cui avreste sempre voluto esserci.... Insomma, se doveste mettere giù una scaletta di 20 canzoni per un concerto, quali scegliereste?....

Se vi riferite a una qualche versione precisa di un live specificatela.... Detto questo, come al solito domenica 29 pubblicherò la mia lista e se vi va di partecipare non dovete far altro che lasciare le vostre tra i commenti....

Vi lascio con un video di 4 signori che di musica dal vivo ne sanno parecchio.... ^_^

Appuntamento a domenica!
ROCK ON!





mercoledì 11 gennaio 2012

Loz Must: London Calling


Ciao a tutti!

Il 2012 è l'anno della famigerata previsione dei Maya, l'anno in cui si dice finirà il mondo come lo conosciamo.... Niente paura, non vi ammorberò con sproloqui superstiziosi e catastrofisti, anzi, prendo al volo l'occasione per aprire una nuova "rubrica", che visto questo primo post rischia di fare concorrenza ai music history come chilometraggio e che mi piace chiamare Loz Must. Semplicemente un'occasione per rianalizzare e riascoltare album storici, album che, Maya o non Maya, vanno ascoltati prima di morire....

Ma poche chiacchiere, questo è il primo appuntamento e partiamo con un vero must.... spero vi piaccia....


Nella storia della musica, tra tutti i periodi, i generi e le correnti, sono pochi gli album che si possono realmente considerare come spartiacque di un epoca, e "London calling" è sicuramente uno di questi....

Siamo nel 1979, il punk è esploso solo 2 anni prima ma ha già raggiunto il proprio apice e si trova ora in parabola discendente, l'ondata rabbiosa che dai sobborghi di Londra aveva sconvolto il mondo si stava spegnendo, la corrente di pensiero e la voglia di buttare nel cesso un sistema ingiusto stavano cedendo alle logiche di mercato, così, come bambini ingolositi da un sacchetto di caramelle, gruppi capostipiti del genere (Sex Pistols su tutti) si trasformano, volenti o nolenti, da paladini della protesta punk alle prime vere boy band della storia; insieme a loro cambiano gli ideali e gli intenti del punk, così proprio nel momento di massimo splendore, quando l'ondata invade gli Stati Uniti, di quel desiderio iniziale di cambiare le cose resta soltanto la rabbia, dei testi specchio di situazioni tremendamente reali restano soltanto le provocazioni, che assumono pian piano le sembianze di ingenue proteste fini a sè stesse. In poche parole il punk sul finire degli anni '70 si è ridotto ad essere una moda e niente più, dando l'impressione alla parte più ingenua del pubblico di rimanere fedele a sè stesso, ma in realtà perdendo mordente giorno dopo giorno, perchè dopo aver sfasciato tutto quello che va fatto è ricostruire, porre le basi di un sistema migliore, cosa che purtroppo la corrente.punk non riesce a fare, se non in ridottissima misura.

La parabola discendente del punk ne rappresenta anche il momento della maturità, quello in cui lo stesso movimento si scinde, in chi continua a voler distruggere tutto in eterno e chi vuole qualcosa di più, chi come un adolescente verso i genitori seguita a rinnegare e disprezzare il passato e chi invece crede che non tutto sia da considerare morto e sepolto, che ideologicamente e musicalmente parlando qualunque corrente musicale e sociale che voglia ottenere i propri obiettivi non può prescindere dall'ispirarsi al passato e a confrontarsi con le altre correnti che analogamente cercano di guardare al futuro con occhio diverso.

La bandiera di questo punk maturo è portata saldamente dalla band di Joe Strummer, che una marcia in più rispetto ad esempio ai Sex Pistols in questo senso l'ha sempre avuta. La differenza principale sta nel background musicale e culturale che attinge non poco a tutto quello che il punk dell'esplosione del '77 considerava vecchio e decrepito. Strummer già nel periodo della scuola ascoltava giorno e notte la musica delle grandi band inglesi per evadere mentalmente dalla vita collegiale che non ha mai sopportato. Beatles, Rolling Stones e Who sono il pane del giovane Joe e non possono che condizionare il suo modo di comporre e concepire la musica, e nello stesso modo viene condizionato anche Mick Jones, deciso a seguire l'esempio dei grandi del rock fin da piccolo e con il valore aggiunto di una cultura musicale più ampia grazie alla madre che, dopo la separazione dal marito, viveva negli Stati Uniti da dove spediva ogni mese riviste e vinili che Mick divorava e assimilava. C'è poi Paul Simonon, personaggio particolare e a suo modo poliedrico (nonostante al momento dell'ingresso nella band non sapesse suonare nessuno strumento) in quanto rabbioso e combattivo da un lato ma con animo artistico dall'altro, che porta una ventata di sonorità jamaicane e latine conosciute nella scuola in cui studiava dove la maggior parte dei ragazzi era di colore. A coronare questa bella sfilata di stili si incastona l'ultimo tassello dei Clash, Topper Headon, batterista di formazione jazz che innalza il livello stilistico e tecnico della band....

E' evidente che con una formazione come questa non attingere dal passato risulta impossibile, e benchè la genesi della band e le tematiche affrontate nelle canzoni li porta ad essere collocati al centro della scena punk, i Clash sono sempre stati più di questo; fanno parte di quella ristretta cerchia di gruppi e artisti a cui categorie e inquadramenti stanno stretti, sempre tra fuori e dentro gli schemi per prenderli dalla fodera interna e rivoltarli, e questa è la vera essenza del loro punk.... Strummer e soci esordiscono nel '77 con l'album omonimo e l'anno successivo con il sottovalutato "Give 'em enough rope", due album di matrice grezza, con ritmi rabbiosi che arrivano dritti dritti dalle difficili situazioni viste e vissute dai membri della band nei sobborghi di Londra, situazioni che vengono riportate anche nei testi, con i quali i Clash chiariscono fin dal primo momento la connotazione politica e sociale della loro musica. I testi dei Clash evocano il malumore popolare che contraddistingue quella parte di Londra che non viene mostrata in tv ed esortano tutti, nessuno escluso e soprattutto i più giovani, a incazzarsi e manifestare il proprio dissenso, a non restarsene ad ammuffire nei pub bevendo per dimenticare quanto si sta male, ma ricordarselo ogni giorno e urlarlo al mondo.

A coronare premesse esplosive come queste arriva il terzo (se non si considera l'edizione statunitense dell'album d'esordio) lavoro in studio, un album che cambia la storia della band e quella della musica, visto che diventerà modello di ispirazione per band dei decenni a venire fino ai giorni nostri e continuerà ad esserlo.... "London calling" è l'Album, con la A maiuscola, quello che più di tutti rappresenta il gruppo quanto i singoli componenti, quello che visto da ogni angolazione non rivela nessuna sbavatura o ambiguità, nessun segnale di cedimento, nè tantomeno di tradimento degli ideali o di umili origini gettate nel dimenticatoio (di cui lo "zoccolo duro" del punk li accusa), ma soprattutto rappresenta la sintesi di un'idea, quella che le cose possono cambiare, ma che per cambiarle bisogna superare i propri limiti, mettere da parte ridicoli pregiudizi e altrettanto ridicole prese di posizione e andare dritti al sodo, e, last but not least, che il passato va compreso e quando necessario preso d'esempio per il futuro, nella musica quanto nella vita di tutti i giorni....

Il rapporto tra passato e presente è uno dei punti cardine dell'album e in generale del Clash-pensiero, ed è già chiaro al primo impatto dalla copertina, una delle più famose di sempre, se non la più famosa in assoluto, che ritrae Paul Simonon al termine di un concerto al palladium di New York mentre in un impeto di rabbia spacca il suo basso sul palco, atto che ricorda Pete Townshend, ma che in realtà nè denota la netta differenza, perchè Paul nella sua vita a spaccato solo e soltanto quel basso, e di certo non per dare spettacolo come invece faceva Pete.... Il legame più grosso con il passato riguardo la copertina è però sicuramente riferito a Elvis, il Re del rock'n'roll, morto proprio nell'anno dell'esplosione del punk, perchè la copertina di "London calling" riprende quella dell'album di debutto del Re, nella grafica prima di tutto, con la scritta "London calling" con gli stessi stile e colore dell'album omonimo di Elvis, e poi per la foto, in bianco e nero, come quella di Elvis, e come quella di Elvis scattata durante un concerto, e con l'unica sostanziale e significativa differenza che Elvis è ritratto mentre canta a squarciagola con la sua amata chitarra tra le mani quasi in un idillio, mentre Simonon il suo strumento lo sta distruggendo, e tutto è tranne che un idillio.... Questi continui pretesti di confronto con il passato sono il succo del messaggio dei Clash. Citare Elvis ha un obiettivo ben preciso, e cioè quello di dire che i tempi sono cambiati, che il testimone è stato passato e se prima il rock'n'roll era la bandiera della protesta oggi quella bandiera veniva portata dal punk, ma senza dimenticare, ed è qui che sta il punto, che senza il rock'n'roll forse il punk non sarebbe esistito, come a dire "Noi siamo più incazzati e meno pettinati, ma la storia è sempre la stessa, il rock non è riuscito in tutto, ora tocca a noi, proviamo con il punk!".

Il suono dell'album non può essere chiamato punk perchè delle sonorità rabbiose e grezze del punk c'è poco, molto poco, ci sono invece influenze di ogni tipo, dal reggae allo ska, dalla musica pop al rock'n'roll, e poi hard rock, jazz, soul, funky e chi più ne ha più ne metta.... "London calling" è un album a 360 gradi, che in certi aspetti anticipa generi che verranno successivamente, è oltre, in tutti i sensi, e proprio per questo l'album più "punk" di sempre, perchè si rifiuta di restare nei limiti della musica punk, esce dai propri stessi schemi, li distrugge e ne esce più forte di prima.... I punk duri e puri dell'esplosione settantasettina inorridiscono all'uscita dell'album, accusando Joe e soci di essersi venduti, di atteggiarsi a rock star e di essersi scordati delle umili origini, origini che invece si palesano ancora nella mente e nel cuore dei ragazzi della band già dal primo ascolto. I temi sono sempre gli stessi, storie di tragedie viste alla tv, di ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri e di un Regno Unito che di unito ha gran poco e così il resto del mondo, ma cambia la prospettiva da cui tutto questo viene raccontato, ed è forse qui che si impuntano i punk della vecchia guardia, perchè insieme al movimento anche i Clash arrivano oltreoceano, e sarebbe stupido negare che le esperienze in terra americana non li influenzino.... Ora la band vede la situazione anche da fuori, da lontano, quasi vedessero tutto da un aereo in volo invece che dalle strette viuzze malfamate di Londra. Nel '79 Joe e Mick, parolieri di quasi tutti i pezzi del gruppo, vivono un periodo di grandissima ispirazione, sia per quel che riguarda i testi, ora molto più incisivi da un lato e poetici dall'altro, sia nella parte compositiva e di arrangiamento; i Clash sono cresciuti, non sono più quattro ragazzi abbastanza bravi che suonano insieme, sono una vera band, conscia e forte delle proprie capacità e decisa a sfruttare fino all'ultima goccia di sudore perchè la loro musica sia come la immaginano e comunichi ciò che loro vogliono comunicare. Il risultato di questa crescita e presa di coscienza sono ben 19 brani sospesi tra sperimentazione e rievocazione, tra passato, presente e futuro, 19 diamanti che fanno di "London calling" uno dei dischi più amati e apprezzari di tutti i tempi.

Si apre con la title track, quella "London calling" che ancora oggi viene trasmessa dalle radio e spinge chi ascolta ad alzare il volume, un ritmo cadenzato inconfondibile che apre l'album in perfetto stile punk-rock, per poi lasciare spazio alle variazioni, all'ispirazione assoluta, a cambi repentini di ritmi e sensazioni, dalla Stonata "Jimmy Jazz" che ha il sapore di New Orleans alla violenta "Guns of Brixton", non per niente cantata da Paul "rabbioso" Simonon, fino al rock'n'roll preso a cazzotti di "Brand new cadillac", cover simbolo del rapporto passato-presente, quasi a dire "Senti come suuonano gli anni '50 nel '79!", e poi c'è la militanza, l'impegno sociale, la sensazione insieme di rabbia e impotenza di Joe in "Spanish bomb", c'è il reggae jamaicano di "Revolution rock", ci sono tracce di funk in "Rudie can't fail" e poi di nuovo il ritorno al rock con "Death or glory", ci sono effetti e riverberi che evocano addirittura il surf rock con "I'm not down" e i preziosismi di "The card cheat", c'è il pop di "Lost in the supermarket", la protesta dell'anima no global di Strummer con "Koka kola", e poi c'è ancora punk rock, folk, giù giù fino alla malinconica e sofferta "Train in vain", e poi tanto, molto di più di quanto forse nemmeno loro pensavano di riuscire a trasmettere.... I clash non si fermano all'apparenza, vanno a fondo di loro stessi e della musica, prendendone il cuore a due mani e scoprendo che in fondo i generi sono soltanto effimere e astratte categorie, ma che il seme della musica, qualunque essa sia, va piantato in un terreno tanto vicino quanto difficile da raggiungere, il cuore della gente....

Su ognuno dei 19 pezzi si potrebbe scrivere un libro, ma la grandezza di "London calling" sta nei singoli brani, eccezionali nessuno escluso, quanto nella sua totalità, nel suo messaggio di speranza, forse in un'utopia ma poco conta, nella sua spinta a fare qualcosa di diverso, a cercare qualcosa di diverso, a tornare padroni della propria vita, delle proprie città e soprattutto a prendere coscienza di un unità necessaria per cambiare ciò che non va, a forzare le barriere del quieto vivere e rispondere alla propria vita che siamo duri a morire, che siamo qui, combattivi e decisi, perchè come amava dire lo strimpellatore Joe, il futuro non è scritto....


Spesso le parole sono superflue.... Grazie Faber....



Il canto ha ancora oggi, in alcune etnie cosiddette primitive, il compito fondamentale di liberare dalla sofferenza, di alleviare il dolore, di esorcizzare il male.
(Fabrizio De Andrè, 18/02/1940 - 11/01/1999)






lunedì 9 gennaio 2012

Sursumcorda in concerto alla Scighera (MI) il 14 gennaio 2012




Milano, Cuneo, Imperia e Alessandria: le quattro città che la formazione milanese toccherà nel mese di gennaio con attesissimi concerti. Dopo il successo di 'La porta dietro la cascata' e il premio per la colonna sonora del corto 'Francesco e Bjorn', il sestetto prosegue la sua avventura. Si comincia il 14 gennaio alla Scighera di Milano
Un imperdibile 2012: i Sursumcorda in concerto!



Milano, Cuneo, Imperia e Alessandria
: queste le quattro città che i Surcumcorda toccheranno a gennaio per inaugurare un nuovo anno di concerti e ottima musica. Il 2011 è stato un anno di grandi soddisfazioni per il sestetto, che ha continuato a raccogliere lusinghieri responsi critici per il nuovo album La porta dietro la cascata, ha vinto il premio Raccorti sociali per la colonna sonora del corto Francesco e Bjorn, ha proseguito nella nutrita attività live chiudendo l'anno al Tambourine di Seregno.



Venerdì 14 gennaio i Sursumcorda saranno alla Scighera, amatissimo palco milanese in Via Candiani 131, nel cuore del quartiere Bovisa. Perfetti nel cartellone di attività multiculturali che l'associazione organizza da anni, i Sursumcorda presenteranno ancora una volta la loro inconfondibile miscela dicanzone d'autore e world music, jazz e musica colta, espressa in modo eccellente nel premiato La porta dietro la cascata (Sursumcorda/Dase SoundLab/Accademia del Suono/Egea/Bollettino Edizioni Musicali). Un doppio album complesso e ambizioso che ha convinto la critica (ad es. Il Mucchio,Suono, L'Isola che non c'era, AllAboutJazz) e ha affascinato il pubblico.
Prossime date dei Sursumcorda:
27 gennaio al Teatro Ferrini di Caraglio (CN),
il 28 al Teatro Salvini di Pieve di Teco (IM),
il 29 all'Isola Ritrovata di Alessandria.
E altre nuove date saranno presto comunicate.


Info:


La Scighera:


Sursumcorda:


Synpress44 Ufficio stampa:


Happy birthday Jimmy!


Ciao a tutti!

Il primo post di oggi è breve ma doveroso, perchè quest'uomo qui sopra oggi compie la bellezza di 68 anni, e in tutto questo tempo Dio solo sa quante emozioni abbia trasmesso dalle corde della sua chitarra ai cuori di milioni di persone in tutto il mondo....

68 anni sono una bella età, ma quando si fa rock gli anni non contano, tanto da essere sempre pronti (e non poterne fare a meno) a calcare le assi di un palco, imbracciare chitarra, plettro o archetto come qui sopra e far scuotere, vibrare e emozionare chiunque sia disposto ad acoltare.... Citando una frase del buon Blackswan in un ottimo post di qualche giorno fa, "E’ il rock, amici miei, quel bambino un po’ strano e casinista che vive dentro noi e pensa solo a divertirsi. Ad invecchiare,mai."

Happy Birthday Jimmy! Rock On!!!!




mercoledì 4 gennaio 2012

Da 50 anni i più grandi di sempre....



Cosa c'è meglio di un concerto? Un grande concerto! E cosa c'è meglio di un grande concerto? Un grande concerto della più grande band di sempre....

Corre l'anno 1973, siamo nel bel mezzo della prima metà degli anni '70, culla di idealismi, lotte per la libertà in tutto il mondo e, naturalmente, della grande musica. Il '73 è un anno di svolte musicali molto importanti, con nuovi gruppi e generi che nascono proprio in questo anno, dall'hard rock in 4/4 degli Ac/Dc all'elettronica e il protopunk dei Cabaret Voltaire, ma soprattutto con altri grandi nomi, quelli fondamentali degli anni '60, che anno dopo anno spariscono dalla scena, in modo più o meno tragico, e così nel '73 non ci sono più i Doors, Jimi Hendrix, Janis Joplin e molti altri nomi illustri a stelle e strisce, ma anche, e qui sta il punto, grossi nomi del vecchio continente, uno su tutti quello dei Beatles, ormai divisi da tre anni, da quel "Let it be" della discordia con cui i quattro baronetti chiudono ufficialmente la carriera.... A mollare tutto e separarsi ci avevano pensato più volte anche i Rolling Stones, antagonisti per definizione degli scarafaggi, perchè dopo la misteriosa morte di Brian Jones, vera anima della band, tutto sembrava finito, ma in temporaneo soccorso arriva qualcuno che di certo non ha mai avuto l'ispirazione immensa, lo stile e il carisma di Brian, ma che d'altro canto con in mano una chitarra è in grado di sfondare muri a colpi di blues.... Il suo nome per intero è Michael Kevin Taylor, ma "Mick" va benissimo.... Il suo arrivo scuote gli equilibri della band, che perde per quel che riguarda la sperimentazione musicale ma acquista un valore dal vivo che probabilmente nessuno ha mai raggiunto, e in più l'anima blues di Taylor trova rifugio e compagnia in Keith Richards, e il risultato sono alcuni dei duetti chitarristici migliori di sempre.... 

Dall'arrivo di Taylor la band si rialza e dal '71 al '73 piazza 3 album, e che album! Sto parlando, nell'ordine, di "Sticky Fingers", "Exile on main street" e "Goats Head Soup". Dopo l'uscita di quest'ultimo la band intraprende probabilmente la sua più grande tournèe in giro per il mondo, nonostante venga loro impedito di suonare in Giappone e come al solito vengano ostacolati. Il 17 ottobre del 1973 i quattro fanno capolino in quel di Bruxelles per due date il cui grande show, esattamente 38 anni dopo, torna sottoforma di Digital download tramite Google music, il portale di streaming musicale della casa di Mountain View. Il 18 ottobre scorso infatti è uscito "The Brussels Affair", undicesimo album live ufficiale dei Rolling Stones, 15 brani registrati durante il primo dei due show nella capitale belga, 15 pezzi di storia della musica che mai ci si stancherà di ascoltare, eseguiti, Brian non me ne voglia, dalla formazione migliore che gli Stones abbiano mai avuto sul palco. 

Si parte con la voce fuori campo che dice semplicemente "Ladies and gentlemen, The Rolling Stones!", e tra le urla della folla spiccano undici corde da paura, le 6 di Taylor e le 5 di Richards, che attaccano con un must, "Brown Sugar", che scalda il pubblico e, nel nostro caso, l'ascoltatore, preparando la strada a una doppietta a dir poco vincente, "Gimme Shelter" prima, con Jagger che solo a sentire la voce viene da immaginarselo sul palco ad agitarsi come solo lui sa fare, appoggiato dalla batteria dell'onnipresente Charlie Watts e dalle incursioni fendenti della premiata ditta Richards-Taylor per 5 minuti e mezzo di puro delirio, e "Happy" poi, con l'inconfondibile sol aperto di Keith Richards a mettere le fondamenta e il resto della band a costruirci sopra una grandissima festa sotto il palco. Ed è solo l'inizio, da qui in avanti i cinque scuotono i cuori di chi ascolta a suon di grande rock.... Si passa per "Rip This Joint", di matrice rock'n'roll che più non si può, tanto da non riuscire a non battere il piede a tempo, a "Angie", classico dei classici, capace di sciogliere anche i cuori più duri, da "Dancing with Mr D", pezzo dall'anima blues e dalla pelle rock, a "Tumbling dice", e alzi la mano chi non l'ha amato.... E poi ci sono i botti veri, c'è "Star star", per gentile concessione dell'immenso Chuck Berry che risuona nell'attacco e negli assoli di Richards e Taylor, c'è "Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker)", c'è una lunghissima e straziante "You can't always get what you want", per l'occasione di oltre 11 minuti, e c'è subito dopo una ancora più lunga e grande, esplosiva, eccezionale "Midnight rambler", con basso e chitarra a spararsi colpi a distanza e l'armonica nel mezzo a rincarare la dose, per 13 minuti di delirio, di passione, di orgasmico godimento musicale che una volta provato non scorderete mai più.... C'è l'anima esagerata di Mick Jagger in "All down the line", e il ritmo incalzante e coinvolgente di "Honky tonk women", e c'è anche, come poteva mancare d'altronde, l'esplosiva "Jumping Jack Flash", e non c'è altro da fare che alzare e cantare a squarciagola.... Si chiude con "Street Fighting Man", per l'occasione infarcita di assoli e un vero e proprio delirio chitarristico di Mr. Taylor supportato da un incredibile Charlie Watts che sfonda il muro del suono con le sue bacchette e regala il più degno finale che si potesse desiderare da un live come questo....

E' difficile parlare di un live, e ancora di più lo è parlare di un live datato quanto questo, perchè un concerto non sono soltanto una serie di canzoni, un concerto sono emozioni che viaggiano a cuore aperto, un concerto è passione, è sudore, è uno spettacolo che anche se preparato nei minimi dettagli non sarà mai lo stesso.... Si, i pezzi sono gli stessi, l'ordine anche, e magari pure gli abiti di scena, ma le emozioni non saranno mai le stesse, soprattutto se si parla degli Stones.... Proprio quest'anno la band festeggia i 50 anni di carriera e Dio solo sa quante ne abbiano combinate e quanti cuori abbiano fatto vibrare in tutto questo tempo.... Forse questa è semplicemente l'ennesima operazione di mercato di band e etichetta, forse potrà sembrare un live come un sacco di altri, ufficiali o no, dei cattivi ragazzi di Londra, ma la presenza di Mick Taylor cambia tutto, lui non ha mai davvero fatto parte della band, lui stesso si è sempre sentito semplicemente il sostituto di Brian Jones, ma quando saliva sul palco con a fianco gli altri 4, quando calcava quelle assi con la sua Gibson tra le mani il blues si impadroniva di lui, i problemi sparivano e il risultato non poteva che essere grande.... Un disco che gira non potrà mai sostituire l'emozione di sentire dal vivo e vedere con i propri occhi uno spettacolo come questo, e men che meno un freddo mp3 scaricato in un picosecondo da Google, ma ascoltare un intero concerto della più grande band del mondo nella sua formazione più spettacolare è qualcosa che ogni appassionato di musica dovrebbe provare una volta nella vita.... Una volta ascoltato "The Brussells affair" l'emozione è tanta, l'anima è piena e le gambe sono stanche per il battere a ritmo incalzante del piede, resta soltanto la tremenda invidia verso chi poco più di 38 anni fa ha avuto il piacere e la fortuna di trovarsi alla Forest National arena di Bruxelles....

Voto: 9

Tracklist:

1. Brown Sugar
2. Gimme Shelter
3. Happy
4. Tumbling Dice
5. Star Star
6. Dancing with Mr D
7. Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker)
8. Angie
9. You Can't Always Get What You Want
10. Midnight Rambler
11. Honky Tonk Women
12. All Down the Line
13. Rip This Joint
14. Jumpin' Jack Flash
15. Street Fighting Man

Rock this year!


Ciao a tutti!

Chiedo ancora una volta venia a tutti, in queste settimane non sono riuscito a occuparmi del blog nè tantomeno a venire a visitare i vostri, e con un ritardo mostruoso vi faccio gli auguri per un grande, grandissimo 2012, pieno di soddisfazioni e belle vibrazioni, ma soprattutto ricco di ottima musica!

Io proverò a metterci del mio per portare un sacco di musica, nuova e vecchia come sempre, spero di riuscirci nel migliore dei modi, ma nel frattempo, visto che, come mi ha fatto notare il buon Blackswan, sto facendo flanella è ora di riprendere seriamente a riempire le pagine di questo blog.

Entro stasera (e se non lo farò vi autorizzo a scaricare insulti pesantissimi) posterò la prima recensione di questo 2012, e sto scrivendo qualche "rubrica" nuova, spero vi piacciano....

Per ora, con immenso piacere, lascio la parola a un rocker italiano come ce ne sono troppo pochi....

Signore e signori, Giorgio Canali!



A più tardi! ROCK ON!!!!!!!