mercoledì 31 ottobre 2012

Miss O - Infection




La musica, quella vera e fatta con passione, a volte ha la capacità di scavare a fondo, di raggiungere l’anima e di infiltrarcisi, come una contaminazione, una benigna infezione che si avvinghia alle sensazioni e resta lì in attesa, pronta a comparire al momento giusto...

Qualcuno si ricorderà sicuramente dei Soon, band pop-rock italiana che con un paio di dischi a metà degli anni ’90 (“Scintille” del 1995 e “Spirale” del 1997) si guadagnò un piccolo periodo di popolarità soprattutto tra i più giovani con canzoni briose dai ritornelli orecchiabili in perfetto stile Festivalbar; un’esperienza breve che non ebbe seguito quella dei Soon, ma che permise a Odette Di Maio, voce e anima del gruppo, di mettere le basi per una carriera fatta finora per lo più di collaborazioni, non ultima quella con i Bedroom Rockers per la colonna sonora di C.S.I. Miami. Nel 2004 la cantante di Torre del Greco conosce quasi per caso il musicista e produttore belga Jan De Block, insieme al quale, con il passare degli anni, crea un’intesa. Da questa intesa nascono i Miss O, duo “a distanza” sull’asse Belgio-Italia che grazie ad internet riesce a portare avanti un progetto musicale che si rifà a sonorità anni ’90, tra il pop e il trip hop, immergendole in un’atmosfera più soffusa che a tratti ricorda colonne sonore di Lynchiana memoria. Lungo la fibra ottica Odette e Jan compongono, arrangiano e perfezionano il materiale per l’album di debutto ufficiale dei Miss O, pubblicato nel maggio di quest’anno.

È una storia particolare quella di “Infection” – questo il titolo dell’album -, sia per la genesi a distanza, sia per alcune peculiarità “astrologiche” se così le vogliamo chiamare: ognuna delle 13 canzoni che compongono l’album è infatti ispirata ad una precisa costellazione ed è stata registrata in giorni ben precisi calcolati in base allo spostamento dei corpi celesti dalla stessa Di Maio, e per di più le registrazioni si sono svolte nel Green Velvet Studio, un luogo avvolto dal mistero ed immerso nel verde nelle vicinanze di Opwijk, in Belgio. Se sia una sorta di superstizione, un semplice capriccio da artista o altro ancora poco importa, certo è che scelte talmente particolari suscitano curiosità e contribuiscono a creare una sorta di ambientazione per l’album, ed in un certo senso ad introdurlo, un po’ come un prologo che chiarisce da subito che il taglio della musica è quello delle sonorità sognanti, di ambientazioni quasi mistiche come succede con una certa branca dell’ambient di provenienza nordica.

Già dalle prime note di “In motion” infatti, il contesto assume le precise sembianze di una baita solitaria nel bel mezzo di un bosco di abeti, un luogo isolato, dove le contaminazioni della città non arrivano e di notte le stelle si mostrano in tutto il loro splendore, senza grigi strati di smog o lampioni giallognoli a disturbarne la vista, un luogo in cui si respira l’essenza della natura e nel quale i pensieri e le emozioni si muovono senza nessun impedimento. Che sia merito del luogo, di strane congiunzioni astrali o semplicemente del talento dei due non è dato sapere, ma quello che traspare all’ascolto dei brani è esattamente questo: pensieri e sensazioni che viaggiano in libertà, a cuore aperto lungo melodie tra il classico e l’elettronico, mai invadenti e sempre al servizio delle liriche, dense e accorate, scandite dalla splendida voce di Odette. Non c’è traccia delle sonorità vivaci ed “estive” dei Soon, c’è invece un sapiente utilizzo dell’elettronica che crea un sound intrigante, che ammalia con discrezione e culla dolcemente, e non ci sono testi urlati, ma intense poesie sussurrate nel silenzio di una notte lontano dai caotici fasti delle metropoli, magari di fronte ad un camino acceso mentre fuori dalla finestra la neve rende tutto ovattato. È proprio questa atmosfera confidenziale a rappresentare l’essenza e la forza dell’album, ed è anche l’ambientazione perfetta in cui immergersi per l’ascolto: brani come “Sensitivity” o “My wildest time” sono piccoli scrigni musicali da aprire nell’intimità del proprio salotto, con una tazza di the caldo sul tavolino per scaldarsi lo stomaco e il pop delicato dei pezzi per scaldare il cuore, la malinconia di “The girl” non si apprezza certo attraverso un’autoradio tra i clacson e le code in tangenziale, e così per “The country”, un folk appena accennato che ricorda le parentesi più intimiste di Suzanne Vega, e ancor di più per “Butterfly”, talmente soave da dispiacersi per la scelta della stampa su cd, perché il quasi impercettibile fruscìo della puntina di un giradischi lungo i solchi di un vinile sarebbe l’ultimo tassello verso l’estasi assoluta...

Una mezza favola moderna quella della bella e brava Odette, fatta di attimi di celebrità, anni di lavoro e dedizione alla musica che finalmente danno i meritati frutti, una spolverata di superstizione e un’aura di magia che non guasta mai, ma soprattutto un album scintillante questo “Infection”, avvolgente ed emozionante, da ascoltare con il cuore oltre che con le orecchie, che delizia e culla con le sue melodie, apre delicatamente la porta delle emozioni e ci fa guardare un po’ dentro noi stessi. Quel che ci ritroveremo a pensare e a provare non lo possiamo prevedere, ma una volta premuto play fuori dalla finestra compare la neve, come per magia anche fuori stagione, la città e i suoi rumori spariscono e la mente ed il cuore possono correre liberi, verso dove non si sa, ma la musica è splendida e non serve altro….

Voto: 8

Tracklist
1. In motion
2. Talk to me
3. The girl
4. Sensitivity
5. Butterfly
6. 61 cravings
7. My wildest time
8. Getaway
9. The neptunian
10. The country
11. My wish
12. Nicht ride
13. Back home




Recensione pubblicata su Oubliette Magazine

martedì 30 ottobre 2012

Greg Lake in Italia!


Ciao a tutti!

Il 2012 è stato un anno di grandissimi e graditissimi ritorni, soprattutto dal vivo, e pare non volersi arrestare! Un nuovo tassello si aggiunge alle tournèe che hanno toccato e toccheranno l'Italia prima della fine dell'anno, e che tassello! Greg Lake, si, QUEL Greg Lake, tornerà in italia tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre per 6 date che si annunciano davvero imperdibili!

Di solito non faccio pubblicità di questo tipo sul blog, ma questo mi pare un evento che merita di essere segnalato! Di seguito il comunicato stampa:


Piacenza, Roma, Bologna, Verona, Trezzo sull'Adda e Firenze: dal 28 novembre al 5 dicembre un'intramontabile leggenda del rock torna nel nostro paese. Vocalist di King Crimson e Emerson Lake & Palmer, il musicista inglese racconta la propria carriera in un avvincente spettacolo solista  
Songs of a lifetime: Greg Lake in tour in Italia


Art Up Art
è lieta di presentare:

SONGS OF A LIFETIME:
AN INTIMATE EVENING WITH GREG LAKE

...il tour italiano di Greg Lake...


"La musica, gli aneddoti, domande e risposte con il pubblico e molto altro": così Greg Lake presenta Songs Of A Lifetime, il nuovo tour solista che finalmente, dopo una grande attesa, approda in Italia. 28 novembre Piacenza (Teatro Municipale), 1 dicembre Roma (Teatro Ambra alla Garbatella), 2 dicembre Bologna (Auditorium Manzoni), 3 dicembreVerona (Teatro Camploy), 4 dicembre Trezzo sull'Adda - MI (Live Club), 5 dicembre Firenze (Viper Club): queste le sei serate che Lake terrà nel nostro paese, dal quale è assente dal 1997, anno dell'ultimo tour italiano di Emerson Lake & Palmer.

Nato a Bournemouth il 10 dicembre 1947, dopo aver militato con gruppi dell'underground inglese come Shame, Shy Limbs e Gods, debutta nel 1969 con i King Crimson di In The court Of the Crimson King. Sua la voce nell'indimenticabile capolavoro del progressive rock, di cui interpreta l'atteggiamento più sfrontato e virtuosistico - incarnando anche lo slancio melodico e la vocalità suadente - con il supergruppo Emerson Lake & Palmer. Il trio, nel quale canta e suona basso elettrico e chitarre, è tra i grandi protagonisti del rock internazionale degli anni '70: durante il decennio Greg collabora anche con Pete Sinfield, fonda l'etichetta Manticore, infine dopo lo scioglimento del gruppo lancia la propriacarriera solista. E' un'avventura longeva e di grande successo, tra collaborazioni importanti (da Bob Dylan a Ringo Starr) e reunion con Emerson e Palmer, come quella del 2010 a Londra. Nel 2005 Greg Lake torna dal vivo con la sua band e ancora oggi è attivo on stage, con tanta voglia di raccontarsi.

L'11 aprile 2012 ha inaugurato da Quebec City un lungo tour chiamato Songs Of A Lifetime: An Intimate Evening With Greg Lake, che finalmente arriva in Italia dopo un fitto calendario tra Nord America e Inghilterra. E' un'operazione che Greg affronta da solo, con la sua voce, le sue chitarre e una lunga storia da raccontare al pubblico: è proprio lo spirito di condivisione ad animare ogni concerto, che egli sviluppa narrando i propri trionfi ma anche le prime esperienze e i miti di gioventù. Lo stesso Greg ha dichiarato: "L'idea di una performance intima e autobiografica è una grossa sfida, è qualcosa di talmente stimolante che il solo pensarci mi emoziona: ho voglia di creare uno show diverso ogni notte, memorabile e unico, inatteso e d'impatto. Un evento intimo e imprevedibile insieme al pubblico". La stampa ha accolto con grande favore lo spettacolo, imminente la pubblicazione dell'autobiografia di Greg Lake, ispirata proprio da questo emozionante viaggio artistico.



Info prevendite e biglietti:

Greg Lake:
http://www.greglake.com

Art Up Art:
http://www.artupart.com

Info stampa:

Ufficio stampa Synpress44:

http://www.synpress44.com

lunedì 29 ottobre 2012

Sit-Rock: Video (Not) kill the radio star


Ciao a tutti!

A grande richiesta (???) tornano le Sit-Rock!

E' passato parecchio tempo dall'ultima sfida, e mi pare che sia arrivato il momento di ricominciare! Per l'occasione scostiamo leggermente l'attenzione dal discorso prettamente musicale e ci tuffiamo nel mondo della celluloide. Questa volta infatti il tema che ho scelto è quello dei videoclip, trasposizioni per il piccolo schermo che a volte riescono meglio delle canzoni su cui vengono registrati, spesso dei veri e propri cortometraggi che si meritano una bella gara da queste parti!

Ormai siete rodati e sapete già come funziona, ma per chi si fosse sintonizzato da poco una spiegazione mi pare doverosa: La sfida si compone di 20 canzoni da elencare, in questo caso senza nessun limite di genere, anno o altro, 20 pezzi, non uno di più non uno di meno, da annoverare tra quelli che secondo voi sono i migliori videoclip, quelli più riusciti, più espressivi, più spettacolari o semplicemente quelli che più vi piacciono, libertà assoluta!

Detto questo, al solito la sfida partirà domenica, quando posterò la mia personale lista e attenderò con ansia di leggere le vostre, una volta raccolte tutte faremo una bella votazione e vedremo chi la spunterà.... ^_^ Se vi va di partecipare non dovrete far altro che lasciare la lista nei commenti al post di domenica, avete una settimana di tempo per pensarci! ^_-

Appuntamento a domenica allora! Nel frattempo vi lascio una bella scarica di rock qui sotto, basta premere play.... :)




venerdì 26 ottobre 2012

Karma in auge - Rituali ad uso e consumo



“È un mondo difficile… È vita intensa. Felicità a momenti, e futuro incerto“, così Tonino Carotone recitava in una delle sua canzoni più famose, era il 1999 e il nuovo millennio era alle porte con tutte le speranze che l’arrivo del 2000 portasse cambiamenti in meglio. Oggi, nel 2012, queste parole sembrano non essere invecchiate di un solo giorno…

Il futuro di questi tempi è sempre più incerto, la felicità si gusta sempre più a momenti, in frammenti da dosare bene e spesso travestiti da acquisti consigliati alla tv e piccole evasioni dalla quotidianità; tempi difficili, soprattutto se si vive in una piccola realtà, piccola e lontana dalle megalopoli frenetiche figlie della società globale come molte realtà del Sud del nostro paese, ed è proprio da una di queste che nasce il progetto musicale dei Karma In Auge, terzetto tarantino dal nome che profuma di Battiato e che vede in formazione Giovanni D’Elia al basso, Mimmo Frioli alla batteria e ai synth, e Salvatore Piccione ad occuparsi di voce, chitarra e synth, nonché alla stesura dei testi. La band nasce nel 2006 cercando fin da subito una propria dimensione musicale, la giusta combinazione di sonorità moderne e graffianti e liriche non scontate; per i primi anni l’attività del gruppo è composta principalmente da live e partecipazioni a diversi concorsi nazionali, finché nel 2010 viene pubblicato il primo lavoro in studio, “Memorie disperse“, un EP composto da 6 brani che riceve un buon riscontro di critica e regala ai tre la vittoria al concorso “Gothic room” organizzato da Darkitalia. Da qui partono una nuova attività live e l’elaborazione di nuove idee per un debutto ufficiale sulla lunghezza del Long Playing, in uscita il 29 ottobre.

“Rituali ad uso e consumo” – questo il titolo decisamente significativo dell’album – rappresenta un passo in avanti lungo il percorso di maturazione artistica della band; con questo secondo lavoro i Karma in auge mostrano fin da subito una profonda attenzione alle liriche ed un avanzamento nella composizione degli arrangiamenti rispetto all’esordio – seppur già decisamente buono – di “Memorie disperse”. Siamo dalle parti del post-rock e del post-punk, inutile girarci attorno, i 9 brani del disco avanzano su tempi solidi tra chitarre cavalcanti e groove graffiante, con i synth ad amalgamare il tutto e a regalare effetti corali e dispersioni sonore tipicamente figlie degli anni 2000, ci sono tracce di dark wave sparse qui e là, ma i passi si muovono senza troppe deviazioni lungo il sentiero tracciato da grandi nomi come Cure o Joy Division.
Le sonorità cupe del post-punk fanno da perfetta ambientazione per i testi dei brani, che raccontano della vita di tutti i giorni, dei suoi crucci e delle sue manie, della routine e dei suoi strozzanti meccanismi. Si parte con “Consumismo mon amour“, e sulla base sonora riverberante dei synth la voce di Piccione introduce una critica sarcasticamente amara alla società di questo “mondo stanco ed effimero” in cui “l’abbondanza non sarà mai un crimine”, vittima di un consumismo ossessivo-compulsivo che alla lunga omologa e anestetizza le personalità al punto che ci si ritrova di fronte alla tv a dire “Pubblicità, cosa mi consigli ora che sento il vuoto nell’anima?”. La successiva “La notte del rituale”, traccia di anticipazione dal cui testo è estratto il titolo dell’album, carica di watt la chitarra e si fa più aggressiva, come le sensazioni disilluse e nervose di chi si trova di fronte alla decisione di lasciare la propria terra in cerca di un futuro migliore, tra la paura di abbandonare le vecchie abitudini e la speranza di trovare un nuovo posto da poter chiamare casa, ‘chè – come risuona ossessivamente durante tutto il brano – “Home is the nest where all is best” (frase splendida).
Il desiderio di evasione dalle proprie prigioni è la sensazione dominante dell’intero album, che sia l’evasione da un luogo fisico o da sè stessi, da una routine che giorno dopo giorno ci condiziona sempre più e sopisce desideri e speranze, e ciò che traspare dalle canzoni è quanto certe sensazioni siano vissute sulla propria pelle, siano viste e narrate dall’interno di un animo in pena, terrorizzato da un futuro nascosto dalla nebbia della società contemporanea e dei suoi difetti, ma ancora capace di sognare, di vedere al di là anche quando tutto sembra buio.

Ecco allora che il disco prosegue tra alti e bassi emozionali, un percorso intenso fatto di attimi di felicità, speranze folgoranti e disillusioni cocenti, in bilico sul filo di un’esistenza che passa attraverso “Guerre fredde”, “Silenzi”, “Lotte visioni prigioni & routine”, a cavallo di un sound affascinante e coinvolgente, tanto potente quando a dominare sono chitarra e basso quanto avvolgente e sognante quando sono invece i synth a prendere il sopravvento, ed in cui il ruolo fondamentale resta comunque quello dei testi, delle parole quanto mai attuali e scandite chiaramente nonostante il nervosismo, parole che fanno di “Rituali ad uso e consumo” un disco di cantautorato moderno da ascoltare con attenzione, e – escluse le motivazioni bastiancontrarie dei soliti indie-snob – poco importa se musicalmente i brani non escano più di tanto dal seminato e restino ancora decisamente ancorati al genere, il sound è interessante e molto curato, tecnicamente impeccabile e soprattutto perfetto per la linea con cui il terzetto pugliese ha deciso di lanciare i propri messaggi, le liriche sono profonde e appassionate e il risultato è un ottimo album. Per una personalizzazione più importante del sound c’è comunque ancora tempo, e resta da vedere se il percorso di maturazione della band proseguirà a ritmi così alti, ma se queste sono le premesse non si può che sperare in bene, alla faccia del futuro incerto…

Voto: 7


Tracklist

1. Consumismo mon amour
2. La notte del rituale
3. Oltre il mondo
4. Persi
5. Guerre fredde
6. Lotte visioni prigioni & routine
7. Wave
8. Silenzi
9. Bovarysme




Recensione pubblicata su Oubliette Magazine

mercoledì 24 ottobre 2012

Thegiornalisti - Vecchio



Qualcuno lo chiama effetto vintage, alcuni passatismo, altri ancora lo chiamano retrò, ma c’è qualcosa di più di una mera corrente modaiola nel recupero del passato, e nemmeno si più parlare di nostalgia, perché sempre più spesso a viaggiare indietro nel tempo sono artisti che quelle epoche non le hanno vissute, e allora qual è la vera forza del passato?…

La forza del passato forse è semplicemente l’essere passato, il segreto è quel sapore di vecchio, l’alone ammuffito di una vecchia casa, di quelle con la carta da parati ingiallita e i mobili di legno scricchiolante, l’atmosfera di una domenica pomeriggio passata a riordinare album di fotografie che smuovono chili di polvere ad ogni pagina sfogliata, a svuotare gli armadi di un lontano zio e trovarsi a giocare con vestiti e oggetti visti soltanto nei vecchi telefilm. A tutti è capitato almeno una volta, e la sensazione che ne nasce è spensierata e rilassante, un po’ intima a volte, e in qualche modo rassicurante, quasi il passato ci venisse in soccorso quando le cose non vanno proprio per il verso giusto dicendoci “prendetela come viene e andrà tutto bene, fidatevi di chi ne ha passate parecchie“.

Insomma, il fascino del passato – soprattutto in campo musicale – resta intatto e resiste alle sportellate di correnti artistiche giovanissime, sonorità ultra moderne e fenomeni da baraccone, lo fa da sempre e certo non smetterà ora, ma anche tra i suoi cultori le correnti di pensiero si separano, c’è chi, forse per una sorta di purismo o di sudditanza psicologica, o forse nella completa convinzione che tutto ciò che poteva essere creato è già stato creato, si rifugia nel culto dei classici e nella loro fedelissima riproduzione per quel che riguarda sonorità, tempi, atteggiamento e persino contenuti dei testi. C’è chi invece dal passato prende spunto per portare avanti progetti originali e innovativi, andando ad aggiungere tasselli di modernità al sound datato, e il risultato può diventare – se la passione che ci si butta è quella giusta – un bel mix sonoro dall’animo moderno e dal retrogusto “vecchio”.

“Vecchio“, questo l’azzeccatissimo titolo che campeggia sulla copertina del secondo album dei Thegiornalisti, formazione romana già salita agli onori della cronaca nel settembre 2011 con l’ottimo esordio di “Vol. I”, e che ad un anno di distanza sono approdati nei negozi di musica con il nuovo lavoro che nel passato (musicale e non solo) affonda saldamente le proprie radici. Si mette il disco, si preme play e l’attacco dei cori di “La tua pelle è una bottiglia che parla e se non parla vado fuori di me” solleva il sipario su uno scenario rurale e scanzonato un po’ inaspettato, che ricorda un qualunque paesino di provincia, dove il traffico non esiste e ci si rifugia la domenica pomeriggio per sfuggire allo stress della città.

È proprio questa l’impressione, che i Thegiornalisti vogliano scappare dalla città e dalle sue costrizioni, staccarsi dai ritmi frenetici, dallo stress e da certi obblighi più o meno indotti per riuscire ad essere sè stessi per un po’, andare in campagna a trovare quel vecchio e saggio zio che suonava il jazz per cantarsela e suonarsela senza bisogno di attrezzature che pettinino il suono, “naked”, come dovrebbe essere il rock’n'roll, con i soli strumenti, la voglia di divertirsi, le parole in totale libertà e un sano “vivi e lascia vivere”.
Gli ingredienti dell’album sono tutti qui, semplici ed essenziali, ‘chè la vita – dice lo zio – a volte va presa così come viene, senza complicarla più di quanto già non sia. E allora ecco che lungo le 12 tracce i Thegiornalisti si divertono a giocare con la musica, saltellando dal pop al rock’n'roll, dal rockabilly al beat british style, con una spolveratina di jazz quanto basta per passare una bella mezz’ora (36 minuti per la precisione) in un’atmosfera che appare da subito familiare, confidenziale e rilassata nonostante le nevrosi figlie della vita frenetica di tutti i giorni.

È impossibile non battere il piede al tempo di “Il tradimento”, così come al riff iniziale di “Pioggia nel cuore” non si può non notare (e apprezzare) l’eco lontano di Chuck Berry, e le dita si muovono da sole schioccando a ritmo sull’honky tonk leggero di “Guido così”. C’è un bel revival strokesiano in “Cinema” che alza bpm e volume ma senza dilagare in un sound nervoso, mentre la title-track e la successiva “gatti” fanno da manifesto degli intenti con i loro ritmi scanzonati e la voce di Tommaso Paradiso che racconta di quando “Noi ce ne andiamo con la spider su, su e giù per la Via Aurelia tra la campagna e il mare” o di quando “Fa freddo a dicembre, e io mi rintano a casa, a vedere i documentari che danno alla TV”, e poi ancora altre liriche leggere e spensierate che suonano come le frasi di quel famoso zio, che ti guarda mentre sei nervoso e ti dice “E che ci vuoi fare?”, che non capisce cos’è tutta questa perenne fretta e, pacato, suggerisce: “Diamo tempo al tempo”.

Insomma, per scovare il fascino di questo album non cercate nella rabbia dei Ramones, e nemmeno tra le poesie impegnate dei grandi cantautori di casa nostra, cercatelo piuttosto in un battisti d’annata – quando ancora la vena depressiva non lo aveva travolto – o nei divertissement alla Sergio Caputo, andate in zona Beatles e per questa volta lasciate riposare “Sgt. Pepper”, “Revolver” e “Rubber soul”, recuperate invece “Please please me” o “A hard day’s night” e concedetevi una pausa, lasciate lo stress chiuso fuori e regalatevi una domenica pomeriggio di spensieratezza, domani sarà lunedì e la città suonerà come i Motorhead, ma oggi è bello prendersela al ritmo dei Thegiornalisti, e anche se suona un po’ “Vecchio” il divertimento è assicurato…

Voto: 7,5



Tracklist

1. La tua pelle è una bottiglia che parla e se non parla vado fuori di me
2. Il tradimento
3. Pioggia nel cuore
4. Una domenica fuori porta
5. Diamo tempo al tempo
6. Guido così
7. Cinema
8. Vecchio
9. I gatti
10. Bere
11. E che ci vuoi fare
12. Nato con te




Recensione pubblicata su Oubliette Magazine

giovedì 18 ottobre 2012

Flyzone - Hard day's morning



Se c’è un giorno duro da affrontare per definizione è il lunedì, già maledetto da un Vasco d’annata sul finire di un album atomico come “C’è chi dice no”, anno domini 1987, quando il Blasco si poteva ancora definire rocker irriverente.

Rockers e irriverenti lo sono di certo i Flyzone, e chissà, forse hanno pensato anche al lunedì ed alle espressioni assenti e ancora addormentate che – immancabili – si incrociano per strada e in metropolitana, per il titolo del loro album di debutto, “Hard day’s morning“, perché a volte tutto quello che serve è la carica giusta, una scintilla, una scossa che volenti o nolenti spazzi via la passività e faccia muovere i nervi, un po’ come il lunedì mattina, quando il suono della sveglia arriva sempre troppo presto e il cervello resta ancora a letto, fin quando si accende la radio e parte la musica giusta. La musica giusta in questo caso è quella della formazione romana, capitanata dal chitarrista e fondatore Danilo Garcia Di Meo, e state pur certi che funziona meglio di un litro di caffè nero bollente…

La band nasce nel 2009 sotto il nome di InOut, espressione maliziosa presa in prestito da “Arancia meccanica“, capolavoro del Maestro Stanley Kubrick che rappresenta un supercult per il gruppo; successivamente il nome viene cambiato in Flyzone, ribellione lessicale alla No-fly zone, l’area di interdizione al volo spesso definita in territori demilitarizzati e che è a tutti gli effetti zona franca per quel che riguarda gli attacchi aerei. I Flyzone invece di interdizione e di zone chiuse proprio non vogliono sentir parlare, perchè, come loro stessi tengono a precisare, “La nostra caratteristica nel suono quanto nei testi è l’irriverenza e in questo non possiamo permetterci limiti: non conosciamo zone di non attacco. Vogliamo e possiamo muoverci in ogni direzione”. Una presentazione, questa, che promette fuoco e fiamme dal quartetto capitolino, e la ricetta del gruppo non può che essere quella del rock arrogante, un po’ punk  e un po’ grunge, un po’ rock-blues e un po’ alternative (definizione che ormai lascia il tempo che trova visto quanto il concetto di alternative si sia allargato negli ultimi anni), rock sporco insomma, che sa di garage di periferia trasformati in sale prove, di fatica, passione e sudore, tutti aspetti che in “Hard day’s morning” risultano palpabili.

Dal 2009 il sound del gruppo si va formando mescolandosi con le influenze dei componenti di una line-up che cambia diverse volte, fin quando nel 2011 iniziano le registrazioni dell’album di esordio, pubblicato nel febbraio di quest’anno; l’album è completamente autoprodotto, ormai unica soluzione per chi voglia fare musica senza sottostare a logiche commerciali e senza dover abbassare i pantaloni di fronte a qualche Re Mida del mercato discografico, e ciò non può che denotare le motivazioni forti di chi non ha paura di affrontare la gavetta per portare in giro la propria musica.

Il risultato è un concentrato di nevrosi metropolitane, un ruggito contro il passivismo e la narcotizzante quotidianità che dilagano, soprattutto in una grande e frenetica città come Roma. C’è una rabbia (poco) repressa nell’atteggiamento della band, che lungo questi 8 esplosivi brani spara watt a profusione e urla la propria insoddisfazione: i quattro imbracciano gli strumenti, alzano il volume sbraitando “Sveglia!” al mondo che sta loro intorno e mettono in fila 8 pezzi che spaziano tra generi e decadi diverse: si va dal rock e il punk più secchi, molto seventies anche se “sporcati” con derive moderne che li trascinano verso il grunge, fino a tracce noisy e deviazioni metalliche affascinanti, passando per qualche spolverata sintetica appena accennata.
Il suono del disco ha il piglio della musica dal vivo e forse anche per questo alcuni aspetti risultano ancora grezzi, ma l’energia e la carica elettrica che i Flyzone riescono a trasmettere spazzano via l’ombra di piccole imperfezioni, a favore di un ritmo incalzante che guadagna la scena alla prima nota di “Katrina” e non la lascia fino all’ultima di “A clockwork orange”, regalando poco più di mezz’ora di adrenalina in soluzione audio. E’ questo – inutile girarci attorno – che prende il sopravvento durante l’ascolto dell’album, perchè i ragazzi ci sanno davvero fare con gli strumenti e la voce di Iurisci è efficace sia su ritmi tirati e toni alti sia sui vocalizzi, e poi con i ritmi trascinanti di brani come “Wake up”, “Black blood” o “Four” il piede batte il tempo da solo e stare fermi è impossibile….

“Hard day’s morning” è un album rock nel profondo, suonato con tanta enfasi e tanto sudore che c’è da chiedersi se Di Meo e soci siano riusciti a terminare le registrazioni sulle loro stesse gambe, un album elettrico in cui forse i testi subiscono la predominanza di una musica potente e sferzante, ma poco importa in fondo, perché il disco è uno di quelli atomici, di quelli da piazzare nel lettore la mattina quando si sono fatte le ore piccole la sera, di quelli che vi fanno agitare ed urlare in macchina mentre siete in coda in autostrada, di quelli che – se proprio gli si vuol trovare un vero difetto – non potete ascoltare al volume che meritano se i vicini sono in casa…

Voto: 7

Tracklist

1. Katrina
2. The qube
3. Black blood
4. Wake up
5. In my opinion
6. While the city’s asleep
7. Four
8. A clockwork orange




Recensione pubblicata su Oubliette Magazine


....A volte ritorn(an)o....


Ciao a tutti!

Questo post è solo per dire che sono ancora vivo. A Dio piacendo questa dovrebbe essere davvero la volta buona per tornare ad occuparmi di questo povero blog abbandonato....

A tra pochissimo per il primo post dopo due mesi, nel frattempo premete play qui sotto! ^_-

ROCK ON!