È stata la musica che mi ha
protetto dalla pazzia ed è venuta a stanarmi fin dentro la mia stanza anonima
della mia anonima casa di periferia. Quella che bussava alla porta era una
generazione cresciuta ascoltando Hendrix, Jim Morrison, Stones, Velvet, Mott
The Hoople, Who, Kinks. Una generazione che prendeva in prestito la poesia di
Baudelaire e di Rimbaud e la trasformava in energia, in rock’n’roll. E tutti
prendevamo coscienza, per emanciparci, per crescere.
Bartolo
Federico – Viaggiatori nella notte
Un
viaggio a fari spenti nella notte, attraverso le strade del blues, le chitarre
slide alla fermata degli autobus, le file al collocamento, quei risvegli che
sanno di alcool e rimpianto.
Bart
ci accompagna, tenendoci la mano, tra le miserie, gli eroismi, i marciapiedi e
i dischi di una vita spezzata ma non infranta, piegata ma non rotta.
Il
tutto avvolto in una caldissima, sabbiosa, dolciastra, meravigliosa atmosfera
blues.
Racconti
che hanno la Musica come assoluta protagonista.
Un
progetto che nasce dal desiderio di “preservare” i racconti comparsi sul blog
Dustyroad:
Il prezzo è il minimo
consentito, nessuno ha margine di guadagno… E se siete interessati, fate un
fischio ad Evil Monkey (theevilmonkeysrecord@libero.it), che ha curato il
progetto e magari ha possibilità di reperirvi qualche copia gratuita…
La versione digitale
è disponibile al seguente indirizzo:
Il
blues, al contrario, potete trovarlo ovunque: per le strade dell’alba, sugli autobus
della sera, davanti alle vetrine agghindate di esteriorità, sul marciapiede
della stazione, aspettando un treno in ritardo di 3 ore.
Sui
database digitali, come nel piccolo negozio di dischi, giù all’angolo.
Le loro canzoni non avevano
produttori. Quelle canzoni ascoltate oggi, a distanza di ottanta e più anni,
sono tali e quali a quelle che suonavano nelle strade, nelle feste o davanti
alle loro case, e non hanno perso un briciolo della loro forza, della loro
poesia. Per questo, definire il blues la purezza assoluta della musica non è
esagerazione.
Soffiate via la polvere che c’è
un tesoro nascosto.
"Sarà un disco pesante, senza cazzate dubstep o elettroniche, il sound sarà old school", questa era stata la dichiarazione rilasciata diverse settimane fa dagli Avenged Sevenfold riguardo a "Hail to the king", sesto lavoro della band californiana capitanata da M. Shadows. Ecco, questo è il tipo di dicharazione che insinua a tempo zero diversi dubbi su quello che potrà essere il risultato, soprattutto se si sta parlando di una band come gli A7X, nata quando l'era del metal classico era finita da una buona decina d'anni e caratterizzata - se non altro per ragioni anagrafiche - da un sound molto derivativo e influenzato dalle deviazioni stilistiche più disparate, dal glam all'industrial, dall'hardcore punk al metalcore, fino alle derive dell'alternative metal (sempre che si possa seriamente dare una definizione di "alternative").
Una "nuova fase" l'hanno chiamata Shadows e soci, una fase di ricerca delle radici della propria musica, di "ritorno al passato" se vogliamo, che però porta con sè un concreto rischio, e cioè quello di scavare a fondo, arrivare alle radici, ma non essere in grado di afferrarle. Non si tratta di una questione tecnica (se così fosse i dubbi sarebbero molti meno), ma soprattutto cognitiva, perchè senza stare a fare discorsi retorici - di quelli che "I Sabbath fino a Master Of Reality, i Metallica fino al Black Album e i Judas Priest fino a British Steel, il resto è merda derivativa" - va detto che viaggiare fino alle origini di una musica di cui non si sono vissuti gli anni migliori è un'operazione non facile, perchè la contestualizzazione storica ha la sua importanza, ma anche e soprattutto perchè prevede uno spietato confronto con artisti, gruppi ed album fondamentali che non ammette scusanti: se si dichiara apertamente di andare alle radici del metal è inevitabile che titoli come "Paranoid" facciano la loro apparizione, e nessuno si sognerà mai di dichiarare un album di questi anni migliore del debutto dei Sabbath, ma in fondo è proprio quel tipo di sound, quell'approccio e quelle vibrazioni che ci si aspetta di trovare, così come nel nostro caso - visto che Zacky Vengeance ha dichiarato che il gruppo si è concentrato "sul core dell'heavy metal" - nel bene o nel male, giusto o sbagliato che sia, il giudizio deriverà sempre e comunque da quanto Rob Halford o Bruce Dickinson potrebbero storcere il naso o quante volte il compianto Ronnie James Dio si rivolterebbe nella tomba...
Nell'ottica di questi indeclinabili raffronti, ascoltando "Hail to the king" la prima domanda che salta in mente è sul motivo per cui gli Avenged Sevenfold abbiano sentito il bisogno di fare un album come questo; perchè incidere undici brani che altro non sono che citazioni, tributi e scopiazzature nemmeno troppo rielaborate dei mostri sacri di cui si parlava poco fa? Quel che viene da pensare è che per afforntare questa "nuova fase" la band abbia bisogno in qualche modo di ripartire dai fondamentali, e allora prima di tutto via definitivamente il cantato metalcore e spazio ad una vocalità che con gli anni ha deviato sempre più verso un approccio più classico, heavy e a tratti epico. Secondo elemento "nuovo" è sicuramente la predominanza di riffoni ed assoli chitarristici tipici del genere, mai così presenti nei precedenti lavori del gruppo, così come la componente epica, dai rintocchi di campane a morto che aprono l'iniziale "Sherpard of Fire" fino alla intro corale in latino di "Requiem". Anche la batteria si fa più canonica e detta i tempi della vera "mutazione" del sound A7X, perchè con i tempi regolari svanisce ogni possibile attitudine punk sia nel cantato che nella ritmica, per la quale il basso resta imbrigliato nelle strette logiche di un sentiero ben delineato. Non è assolutamente un male, nessuno si aspetta qualcosa di nuovo da un album dichiaratamente heavy metal, ed ogni reinterpretazione o rielaborazione di un sound considerato "classico" porterebbe fuori dal seminato, oltre la definizione del genere incanalandosi in sottogeneri più o meno moderni; quel che però suona straniante (se non un punto di demerito soprattutto dal punto di vista dei fan della prima ora) è il fatto che ad intraprendere questo percorso sia una delle band che maggiormente negli ultimi anni ha dimostrato di saper rendere originale una musica estremamente derivativa quale è per forza di cose il metal suonato negli anni '10 del ventunesimo secolo, mettendoci del proprio, mescolandola con stili ed approcci differenti, e così sentirli non solo suonare heavy metal, ma un heavy metal di facile ascolto - quasi radio-friendly si potrebbe azzardare - assomiglia molto ad un segno di cedimento perlomeno in quel che riguarda l'originalità e la creatività.
Non fraintendetemi, "Hail to the king" è un album che si lascia ascoltare più che degnamente, è suonato in modo impeccabile e di certo è poco criticabile se analizzato singolarmente e slegato da logiche di continuità stilistica o altro, ma altrettanto certo è che non nasconde nulla, che difficilmente ci si possano trovare delle chicche o degli spunti degni di nota, insomma, si presta benissimo ad un ascolto anche distratto, nelle nottate stanche passate a cazzeggiare in gruppo o nelle cuffie dell'i-pod per darsi la carica mentre si fa jogging. Non un disco essenziale quindi, ma forse - credo che il beneficio del dubbio sia ancora applicabile - semplicemente un album di passaggio prima di un prossimo cambio di rotta definitivo e (speriamo) più ispirato; se così fosse ben vengano le pesanti scopiazzate (parlare di citazionismo è troppo poco) da Guns N'Roses ("Doing Times"), Metallica ("Hail to the king") e Iron Maiden ("Coming home"), ben vengano anche "Crimson day" e la bonus track "St. James", rispettivamente power ballad e classicone metal in crescendo pescate a piene mani ancora una volta dal repertorio di James Hetfield e soci, se heavy metal classico dev'essere che così sia!
Stiamo a vedere quel che succederà con i prossimi lavori, ma nel frattempo - nonostante qualche pecca soprattutto nella seconda parte del disco - l'ascolto di "Hail to the king" passa senza problemi le prove air guitar e headbagging, e per questo si merita la sufficienza, l'heavy metal - sound old school o no - in fondo è anche questo...
Voto: 6
Tracklist
1. Shepherd of Fire
2. Hail to the King
3. Doing Time
4. This Means War
5. Requiem
6. Crimson Day
7. Heretic
8. Coming Home
9. Planets
10. Acid Rain
11. St. James (Bonus track)
Sottotitolo: Se vuoi fare la fine dei Muse sei sulla strada giusta...
"Hesitation marks" è l'album che segna il ritorno dei Nine Inch Nails di Trent Reznor. Ritorno, oltre che nei negozi di dischi, sulle scene live di un po' tutto il mondo a ormai oltre 4 anni di distanza dalla "pausa dalle attività live" annunciata dallo stesso Reznor sul sito della band, e forse è da qui che dobbiamo iniziare, perchè dopo qualche anno di assenza è proprio dal vivo (i NIN sono passati in quel del forum di Assago mercoledì scorso per l'unica data italiana del loro tour) che si possono fare le migliori considerazioni sullo stato della band.
Iniziamo dalla serata di mercoledì quindi. Concerto sold-out da tempo (e del resto sarebbe stato veramente difficile aspettarsi qualcosa di diverso), parterre foltissimo e animi pronti al pogo, poco dopo le 20 ci pensa il gruppo spalla a scaldare la folla, sul palco salgono infatti per l'occasione i Tomahawk dell'ex Faith No More Mike Patton, un'esibizione breve ma intensissima, un crescendo ritmico tanto potente da lasciare sconvolti i silenti spettatori, che non possono far altro che "subire" attoniti la performance del supergruppo statunitense, condita da qualche frase in italiano scandita dal buon Patton, che sulla meritatissima standing ovation finale commenta "Siete molto generosi per una band spalla". Beh, se tutte le band spalla fossero così non ci sarebbe bisogno degli headliner... L'adrenalina sale e poco dopo, a luci ancora accese entra in scena il protagonista della serata, Reznor fa il suo ingresso sul palco completamente vuoto e si gode lo stupore del pubblico, che non fosse per l'abnorme massa muscolare forse l'avrebbe scambiato per uno qualunque dei tecnici. Il concerto inizia così, con Egocentrismo Reznor al centro di un palco vuoto che, mani poggiate sulla tastiera elettronica, attacca con "Copy of A", estratto dal nuovo lavoro, mentre pian piano anche gli altri membri della band fanno capolino sul palco armati di sole strumentazioni elettroniche. E' soltanto l'inizio, ma sono già chiari almeno due aspetti, il primo è il taglio (fin troppo) sintetico che prenderà lo spettacolo, e il secondo è che l'ego di Trent Reznor farebbe impallidire il Re Sole.
Da qui in avanti sono due ore quasi ininterrotte che confutano in tutto e per tutto le prime impressioni... Reznor è sempre al centro della scena, sempre con un occhio di bue puntato in testa, di colore diverso rispetto agli altri, e spesso è persino l'unico visibile mentre il resto della band è in controluce o addirittura al buio completo, perennemente un passo davanti agli altri sul palco, e - quando non lo è - si piazza su una pedana rialzata, per la serie "Io sono io e voi non siete un cazzo".... E' proprio questo l'atteggiamento, non solo nei confronti della band, ma anche verso il pubblico: probabilmente nella mente del frontman il pubblico è lì soltanto per adorarlo e idolatrarlo, e per questo non azzarda nessun tipo di rapporto con la folla, spiccica qualche "Thank you" tra un brano e l'altro e scende dal palco una sola volta senza immergersi troppo nel pubblico, ma nulla più. In compenso l'esibizione è davvero potente, con volumi da sordità ed effetti visivi decisamente ben riusciti, due su tutti le centinaia di luci da ogni punto del palco e l'intelligente utilizzo dei pannelli che brano dopo brano vengono spostati quasi ossessivamente, tanto per proiettare immagini, ombre, video ed effetti vari, quanto per mascherare l'enorme lavoro dei tecnici nello spostare le strumentazioni a tempo di record. E' la componente visiva il fulcro di tutto lo show, durante il quale i NIN srotolano una setlist di ben 25 brani, equilibrati e molto furbescamente distribuiti lungo la serata, con classiconi quali "Closer" o "Head like a hole", pezzi vibranti come "The wretched", ma soprattutto interminabili intermezzi elettronici, ed è qui che casca l'asino, perchè non a caso i brani più allungati sono quelli più droneggianti, riverberati e gracchianti, insomma, pare proprio che il quasi cinquantenne Trent - nonostante chitarra alla mano ci dia dentro pesantemente - abbia bisogno fin troppo spesso di abbandonare i ritmi da pogo e urla per mettersi comodo di fronte alla consolle e riprendere fiato...
Lo spettacolo e il divertimento comunque ripagano ampiamente il prezzo del biglietto, e se così non fosse bastano i cinque minuti della conclusiva "Hurt" a mettere tutti d'accordo ('chè i classiconi a questo servono: canto corale, accendini accesi e tutto il resto non conta più), ma resta comunque addosso una sensazione straniante, la stessa che si prova mettendo "Hesitation marks" nello stereo. L'attacco è affidato a "The eater of dreams", un crescendo gracchiante che assomiglia alle inquietanti intro di album black o doom metal, ma ci pensa "Copy of A" a troncare il discorso: non ci sono chitarra basso e batteria picchiati duro ad aspettarci dietro il muro, ma tastiere, drum machine, synth e diavolerie eletttoniche varie. Si sale e si scende in continuazione con bpm e volumi quasi fossimo sulle montagne russe, con accelerate violentissime come "In two" o "Running" e improvvisi rallentamenti come "Find my way", un'intro alla soglia dell'ambient seguita da un crescendo sonoro in perfetto stile post-rock nordico, un po' Bjork e un po' Sigur Ros, ma non illudetevi, è soltanto qualche breve parentesi, per la gran parte della durata dell'album a farla da padrone sono riverberi elettronici, echi quasi obnubilanti, organetti, deviazioni rumoristiche e muri sonori.
Dove sono finite le chitarre? Niente, quasi nessuna traccia, giusto qualche accenno qui e là, quasi sempre zavorrate dai synth, e la batteria? Soppiantata in toto dalla drum machine. Stessa sorte per il basso, sacrificato in favore dei riverberi. Come si poteva già prevedere da alcuni precedenti quali "With Teeth" e "Ghosts I-IV", Trent Reznor (inutile parlare di Nine Inch Nails quando è più che evidente chi sia il solo a portare i pantaloni in casa) è arrivato dopo anni di sperimentazioni ad un punto di svolta cruciale, uno di quei momenti in cui ci si trova ad un bivio e si sceglie una strada; bene, Trent sembra aver ingranato la quarta in direzione dell'electro-minimal. Scelta artistica di tutto rispetto, non fosse che i dubbi sorgono sempre più man mano che si prosegue nell'ascolto di "Hesitation marks", perchè se la scelta dell'elettronica a discapito del suono "analogico" è chiara non lo sono altrettanto i moltissimi richiami a generi più o meno "di tendenza", tracce di dubstep qui e là, un poco di drone, melodie scopiazzate dai Depeche Mode, rumori danceggianti presi in prestito da Daft Punk, e poi "Everything", settima traccia del disco, messa lì nel mezzo, nel pieno delirio allopatico 3 minuti di schitarrate violente, batteria in picchiata duro e ritmo post-punk....
E allora che cos'è questo "Hesitation marks"? Sono questi i segni di esitazione? Reznor vuole lanciarsi nel profondo delle sonorità minimali ma non riesce ad allontanarsi dall'adrenalina di una chitarra? Oppure è un modo per lasciare aperte le porte verso sperimentazioni con i generi più disparati? Non è dato sapere cosa ci sia nella sua testa, forse un geniale grande disegno che i comuni mortali non possono capire, o forse, ed è questo che - con un forte dolore al petto - mi viene da pensare, un'enorme, atomica, allucinante furbata, un minestrone di tutto e niente, un pot-pourri di esitazioni, accenni, citazionismo e autoerotismo ritmico. Tra pochi giorni saranno qui tutti a celebrare questo album come l'opera di un genio totale (l'ho già sentito paragonare a "The Downward Spiral" e mi è venuta l'orticaria), e sono pronto a ricevere gli insulti di chi mi dirà che non capisco la portata artistica del disco, o che mi dirà che il rock è morto e il futuro è questo, sarà, ma se fino a pochi anni fa avrei paragonato Trent Reznor a gente come Blixa Bargeld o Brian Eno, ora, dopo il quindicesimo ascolto di questa onanistica ora e venti minuti di autocelebrazione, l'unica vera similitudine la trovo con Matthew Bellamy e i Muse del pessimo "The 2nd law".
Spero sia soltanto un passo falso, perchè alla prova live - fiatone a parte - i NIN hanno dimostrato di essere ancora in grado di fare un gran bel casino, e perchè in fondo la speranza è l'ultima a morire, tu provaci ancora Trent, io aspetto fiducioso e torno ad ascoltare "Hurt"...
Voto: 4,5
Tracklist
1.The Eater of Dreams
2.Copy of A
3.Came Back Haunted
4.Find My Way
5.All Time Low
6.Disappointed
7.Everything
8.Satellite
9.Various Methods of Escape
10.Running
11.I Would for You"
12.In Two"
13.While I'm Still Here
14.Black Noise
Bonus Track - Versione Deluxe
15.Find My Way (Oneohtrix Point Never Remix)
16.All Time Low (Todd Rundgren Remix)
17.While I'm Still Here (Breyer P-Orridge 'Howler' Remix)
A leggere la biografia di Dana Fuchs sembra di trovarsi di fronte all'ennesimo film pseudo-favola-romantico-musicale stile "Le ragazze del coyote ugly", ma per questa volta le logiche da botteghino facile non c'entrano, è tutto vero... Eppure gli elementi ci sono tutti: c'è una famiglia numerosa che fa tanto americani conservatori (Dana è la più giovane di ben sei figli), c'è una passione per la musica che nasce prestissimo e pare diventare l'unica ragione di vita, tanto che Dana - poco più che adolescente - annuncia alla famiglia "vado a New York per cantare il blues". Certo, Dana arriva da Wildwood, che - nonostante il nome molto cinematografico - è una piccola cittadina della Florida e non un villaggio di bovari sperduto nell'Arkansas o nel Montana come il manuale della commediola romantico-musicale insegna, ma per il resto la sua storia assomiglia non poco ad una "favola moderna" se così la vogliamo chiamare, corredato da tragedie che le lasceranno il segno, e dall'immancabile lieto fine con il sogno della musica che si realizza...
La simbiosi tra Dana e la musica comincia prestissimo, anche i suoi fratelli maggiori infatti ci si dedicano e il risultato è che Dana cresce fin da piccola circondata dalla musica; a 12 anni si unisce al First Baptist Gospel Choir, dal quale apprende una forte inclinazione al soul, mentre a 16 anni entra a far parte di una blues band locale. Da qui in avanti il blues e il soul non la abbandoneranno mai più e faranno da fondamenta per una carriera che comincia pochi anni dopo, con l'approdo tra le confusionarie strade di New York, tra le quali - come da copione - Dana non si sente a suo agio, fin quando, a 19 anni, la notizia del suicidio della sorella la sconvolge ma allo stesso tempo la spinge a mettere tutta sè stessa nella musica. Inizia così a girare tra i locali blues di New York partecipando ad alcune sessioni di improvvisazione, ed è proprio in una di queste serate che conosce Jon Diamond, già chitarrista di Joan Osborne e Debbie Davies, insieme al quale fonda la Dana Fuchs Band. La band diventa ben presto famosa nell'ambiente, e nel giro di un anno Dana e i suoi si ritrovano a condividere il palco con John Popper, James Cotton e Taj Mahal. Passano altri due anni caratterizzati da un'intensissimo allenamento vocale, dopo i quali Dana - con la collaborazione di Jon - scrive nuovi brani e torna a calcare la scena. Questa volta i nomi si fanno più grossi, sia quelli dei locali - The Spephen Talk House e BB King's, tanto per dirne un paio - che quelli degli artisti con cui Dana condivide il palco, due su tutti quelli di Marianne Faithful e Etta James. Nel 2003 arriva l'album di debutto, "Lonely for a lifetime", accolto con entusiasmo da pubblico e critica, e dopo il quale Dana viene chiamata per interpretare nientemeno che Janis Joplin nel musical "Love, Janis" e per quella di Sadie per il film "Across the universe" (ve la ricordate la biondona che canta Helter Skelter?...). A "Lonely for a lifetime" seguono "Live in NYC" del 2008 (l'album è difficile da reperire ma l'ascolto vale lo sforzo, provare per credere...), il non entusiasmante "Love to beg" del 2011, ed infine la sua ultima fatica, "Bliss Avenue", pubblicato a luglio di quest'anno.
Una nuova tragedia familiare - la morte del fratello - ha assestato un nuovo colpo basso a Dana, che però risponde con una prova di forza, la sua prova migliore finora, 12 tracce lungo il sentiero del blues e del rock, con contaminazioni soul, country, e persino hard rock, con riffoni seventies che sanno di Zeppelin, attimi country e profonde divagazioni soul, il tutto condito da una passione più che palpabile. Il risultato è un album senza il minimo cedimento, solido, con un Jon Diamond in stato di grazia che - come Joe Bonamassa con Beth Hart - serve ottimi assist elettrici per Dana ,che si destreggia apparentemente senza la minima fatica tra le atmosfere honky tonk di stonesiana memoria di "How Did Things Get This Way", le cavalcanti sgroppate polverose di "Rodents in the Attic", tra i brani migliori del disco, passando addirittura per tracce di pop rock anni '80 ("Long long game" sembra scritta, suonata e cantata dalla premiata ditta Sambora-Bon Jovi) e ritmi tra R&B e gospel. In mezzo c'è tutto, c'è "Daddy's little girl", pezzo che - mi perdonino i fan del boss se pare una bestemmia - ricorda lo Springsteen più allegro, ci sono le ballate come l'elettroacustica "Baby loves the life" - forse il più radio-frendly dei 12 pezzi, che non mi stupirei di trovare presto nella soundtrack di qualche commedia romantica -, l'acustica "Nothin' on my mind" con il suo sapore di far west, e infine "So hard to move", dal sound morbido e carezzevole, ma dalla voce consumata e intensa, sentimentale e vibrante come è giusto che sia un brano scritto sul letto di morte del proprio fratello; un pezzo da ascoltare lontano dai superalcolici. Non manca neppure il rock, quello classico, elettrico e sprezzante, quello di "Keep on walkin'", pezzo senza fronzoli, un po' tamarro forse, ma certamente da ascoltare a volume altissimo; e poi ancora il lato soul di Dana che prende il sopravvento in "Vagabond wind" e sfocia nell'R&B della splendida "Livin' on sunday", con i suoi cori gospel a sostenere la potente voce della Nostra. Sembra di essere tornati indietro di qualche decennio, quando una gran signora di nome Tina Turner scriveva intere pagine di storia, e certo Dana Fuchs non sarà mai LA leonessa, ma di certo sa mordere e - soprattutto - ruggire... Se ne volete la prova basta mettere il cd nello stereo e premere play, se il paragone con la Turner vi sembrava esagerato la traccia di apertura e l'aura di Janis Joplin che le aleggia intorno vi faranno cambiare idea: la title track è un violento ruggito in salsa electric-blues, con chitarra cadenzata, batteria ad incedere costante e qualche breve svisata del buon Diamond, un sound che odora di Led Zeppelin a km di distanza, perfetto per Dana, che tira fuori tutto quello che ha dentro, armata di una voce ruvida come la carta vetrata scava nel profondo, si affaccia sulla voragine, e tra le viscere del suono trova l'anima del blues, la graffia e regala una canzone che vale un album intero.
Voto: 8,5
Tracklist
1. Bliss Avenue
2. How Did Things Get This Way
3. Handful Too many
4. Livin’ on Sunday
5. So Hard to Move
6. Daddy’s Little Girl
7. Rodents in the Attic
8. Baby loves the Life
9. Nothin’ on My Mind
10. Keep on Walkin’
11. Vagabond Wind
12. Long Long Game
Non è semplice fare una musica che parli di emozioni e sentimenti, di qualunque tipo di sensazioni si tratti, belle o brutte che siano saranno sempre complesse da riassumere nei pochi minuti di una canzone, ma quando un artista o una band ci riescono bastano pochi secondi per rendersene conto, ed è proprio quel che succede ascoltando “Everest“...
I Gouton Rouge sono quattro ragazzi sfuggiti per questioni anagrafiche a correnti musicali alle quali ora guardano con quella strana nostalgia che si prova verso epoche mai vissute, quella nostalgia che ti fa dire “Ah, se fossi nato 10 anni prima!...” e che nella musica spesso finisce per definire influenze stilistiche e gusti personali; è così che i Gouton Rouge si appassionano allo Shoegaze, ed è verso le atmosfere eteree e i suoi muri sonori fatti di riverberi e suoni dilatati tipici del genere che scelgono di indirizzare la loro musica, incidendo due ep (“Rogues” del 2011 e “Cambiamo casa” del 2012) di grandissimo impatto, loro dicono di non essere ancora arrivati a fare shoegaze ma ad ascoltare questi due lavori pare proprio il contrario...
Altra storia è invece quella degli Apash Twenty Twelve: la band nasce nel 2000 e in dodici anni incide 3 album passando attraverso numerosi cambi di formazione e deviazioni stilistiche, l’iniziale garage-punk vira anno dopo anno verso le plumbee lande del minimal-dark e del Sad-core, e dall’iniziale formazione a tre con il passare del tempo si arriva a 2, a 4 e infine ad un solo componente: Fabio Armando Patini; è lui la voce e l’anima di quello che ormai è divenuto un interessantissimo progetto One Man Band di cantautorato moderno, a tratti sperimentale, fatto di chorus, effetti gracchianti e mood oscuri e sofferti.
Due storie differenti, due generi sonicamente agli antipodi, eppure qualcosa che lega i Gouton Rouge con Apash c’è, e non c’entra il fatto che entrambi siano di Busto Arsizio; quello che accomuna i due progetti è l’attitudine emozionale delle rispettive musiche, la voglia di trasmettere sensazioni ed emozioni prima ancora che parole e messaggi, e per nulla incide il fatto che le atmosfere malinconiche ma musicalmente energiche dei primi paiano molto distanti dalle tenebrose sensazioni da valle di lacrime del secondo, le emozioni sono semplicemente emozioni, bianche o nere che siano si troveranno sempre sulla stessa lunghezza d’onda, proprio come Gouton Rouge ed Apash, che – incontratisi – decidono di collaborare alla realizzazione di un album condiviso; ciò che ne nasce è uno split di 6 brani pubblicato lo scorso gennaio sotto il titolo “Everest”.
Tre brani a testa, se non fossimo stati nell’era del digitale si sarebbe detto “lato A e lato B”, e mai scelta sarebbe stata più azzeccata, perché in casi come questo avere un lato A ed un lato B aiuta ad assimilare meglio, basta infatti stoppare il disco alla fine del terzo brano, giusto quei pochi secondi che sarebbero serviti a ribaltare il vinile sul piatto e riappoggiare la puntina, per cambiare in meglio l’ascolto, per inserire un distacco, un piccolo intervallo tra primo e secondo atto sufficiente per assorbire in modo più completo le vibrazioni dei brani.
Il “Lato A” è affidato ai Gouton Rouge, che rispetto ai lavori precedenti abbassano l’asticella dello shoegaze a favore di più marcate linee tipicamente alternative-rock, senza però abbandonare l’attitudine alla melodia che li contraddistingue. “Josef K”, “Wessels” e “Sentimento, tre brani malinconici ed intimi che uno dopo l’altro aumentano di intensità ed espressività, brani sentiti e sudati che parlano a cuore aperto di delusioni cocenti, speranze in bilico e di quei ricordi che “ci assillano, attraversano, trafiggono, bruciano, uniscono”. Quando la splendida “Sentimento” volge al termine viene da chiedersi perché i quattro non abbiano inciso semplicemente un ep con questi 3 pezzi a cui non manca assolutamente nulla, ma la risposta arriva ben presto e si rivela una piacevolissima sorpresa....
Mettiamo in pausa, prendiamo fiato e ripartiamo, il protagonista del secondo atto è Apash, chitarra, voce e qualche giochetto elettronico, niente di più, e la storia cambia, il cantato in italiano lascia spazio a quello inglese, la luce si abbassa, le emozioni si fanno agre ed alla malinconia si aggiunge una buona dose di disillusione; a dispetto degli speranzosi titoli, “Beautiful”, “Wish” e “I’m flying” sono pezzi da pugni contro il muro, introspettivi e in alcuni momenti davvero debilitanti, con la voce di Apash che vibra quel tanto che basta per trasmettere le sofferte sensazioni descritte dai testi.
Gli effetti rumoristici industrial di “I’m flyng” mettono la parola fine a questo interessantissimo lavoro, sono passati poco più di 20 minuti, ma le vibrazioni sono state tante e soprattutto intense, cosa riserverà il futuro per i Gouton Rouge e per il solitario Apash non è dato sapere, ma quando si sanno trasmettere le emozioni con classe non c’è che da sperare in bene....
Voto: 8
Tracklist
1. Josef K
2. Wessles
3. Sentimento
4. Beautiful
5. Wish
6. I’m flying
La musica, in qualsiasi direzione artistica la si intenda, è e deve essere prima di ogni altra cosa evocativa, che ciò da evocare sia un’immagine, una sensazione, un’idea, un ricordo o chissà cos’altro; in questo senso spesso le parole non servono, la sola musica disegna scenari di ogni tipo, e quando si parla di doom metal gli scenari sono quelli più oscuri dell’animo umano…
È negli abissi dell’anima e della mente umana, lì dove restano rinchiusi incubi, stranezze, ossessioni e paure, che ci si trova ad attraversare gli anfratti più bui dell’esistenza, dove l’inconscio prende il sopravvento e la luce filtra ben poco, dove la vista è occlusa e bisogna procedere a tentoni, ed è proprio qui, tra ombre scure e pochi, pochissimi spiragli luminosi che comincia questa storia, una storia strana e non poco inquietante, la storia di un uomo normale a cui la vita volle giocare uno strano scherzo, un tiro mancino che lo cambiò radicalmente, inoltrandosi nel buio abisso della sua mente, scalfendo le pareti portanti del conscio e dell’inconscio e consegnando Phineas Gage – questo era il suo nome – alla storia… Phineas era un operaio americano addetto alla costruzione delle ferrovie, un lavoratore, un uomo per bene, un uomo come tanti, fino al pomeriggio di quel fatidico 13 settembre 1848, quando un incidente gli cambiò per sempre la vita.
Durante il lavoro Phineas venne colpito alla testa da un’asta di metallo che gli trapassò il cranio, ma che – incredibilmente – non lo uccise; l’uomo sopravvisse e, fatto ancora più stupefacente, la sua ripresa dal trauma fu praticamente immediata, ma non fu più il Phineas di prima, il suo comportamento cambiò definitivamente, e quello che prima dell’incidente era un uomo gentile divenne scontroso, irascibile ed incontrollabile, la sua personalità cambiò di colpo a causa di quell’asta di metallo, che lo lobotomizzò, rendendolo incapace di valutare i rischi delle proprie azioni e trasformandolo a conti fatti in un’altra persona, fisicamente sana, ma irrimediabilmente condannata a vivere un incubo.
Una storia degna di un film horror, ed ancor più inquietante proprio perché realmente accaduta: l’incidente di Phineas Gage infatti è stato ed è ancora oggi oggetto di studio nell’ambito della neurochirurgia, ed è uno dei punti sui quali si basarono le teorie che portarono alla pratica – fortunatamente abbandonata – della lobotomia frontale, ma non è per raccontare la storia della medicina che siamo qui, bensì per fare un viaggio, un viaggio al centro della mente umana, lì dove la sorte ha colpito con tutta la sua forza il povero Phineas, lì dove un bel giorno, senza nessun apparente motivo, la luce si spegne e si sprofonda nell’oblìo. Ad accompagnarci in questo viaggio troviamo gli Aidan, trio padovano incline al post-metal ed alle sue deviazioni più oscure e doom, nulla di più azzeccato per addentrarsi nei meandri di un cervello sconvolto, di un animo shockato…. “The relation between brain and behaviour“, così si intitola l’album di debutto della formazione veneta, pubblicato il 21 gennaio scorso, un album tenebroso, plumbeo come la sua copertina, un concept perennemente in bilico tra linee di basso imponenti e vibrazioni drone, incentrato sulla vicenda di Phineas, in qualche modo inquadrata dall’interno, come se a fare da narratore lungo i 7 brani che compongono il disco ci sia lo stesso Phineas, con tutte le sue personalità…
Come da copione non troverete una sola parola nei brani dell’album, perché il doom per definizione è strumentale, a suo modo psicologico e l’utilizzo della voce sarebbe soltanto un elemento di distrazione dall’evocatività del suono, dai brividi che inquietano e trasportano proprio dove gli Aidan ci vogliono portare, nei cunicoli stretti ed imprevedibili di una mente deviata; e allora fate un respiro profondo, il cd è nello stereo e la discesa comincia….
Si parte con “Lebanon, 1823“, intro dall’inflessione distesa e dai suoni dilatati, un inizio dai toni grigi, apparentemente morbidi, che introduce la successiva “No longer Gage”, progressione ripetitiva ed ossessiva in cui ad ogni giro la tensione si alza, diventa palpabile, le linee si fanno più scure, la batteria inizia a far sentire la sua presenza, e sul crescendo finale nuvole nere si affacciano per il terzo brano. “Left frontal lobe” è il punto di svolta del racconto e dell’album, è qui che accade il patatrac, è in questo momento che la mente del protagonista viene sconvolta, deviata dall’avversa sorte, le luci si spengono del tutto, e quello che finora sembrava un sentiero ben tracciato incontra un baratro, un strapiombo travestito da una cavalcata al limite del black, non fosse per le potenti sferzate drone che giocano con i tempi pigiando ora sull’acceleratore ed ora di colpo sul freno.
Da qui in avanti quel che c’era prima non ci sarà mai più, e a darcene la conferma arriva “Dr. John Martyn Harlow”, un macigno sonoro che procede come un rullo compressore tra chitarre sempre più incisive, linee melodiche di Sabbathiana memoria ed un crescendo ritmico compulsivo, la mente e l’animo sono irrimediabilmente turbati, le visioni distorte e “Pulse 60, and regular” – che di fatto rallenta il ritmo – con il suo ambient-drone obnubilante incute nuove paure, insinua un nuovo terrore che si muove nel buio più totale in cui ci si ritrova a questo punto. Stiamo giungendo al termine del viaggio, ma in fondo al tunnel non c’è nessuna luce ad attenderci, è il buio a farla da padrone, e “Ptosis” nè è la dimostrazione più alta, una vibrazione inarrestabile, una serie di passi mossi tra i cunicoli umidi e freddi di un razioncinio che non c’è più, un avanzare inquieto, stanco e sconvolto che porta all’inevitabile declino finale di “Lone mountain”, gelido sludge violentemente cadenzato dalla batteria, snervante nei suoi oltre 8 minuti di durata, ma più che mai incisivo e azzeccato per terminare il racconto.
È meglio chiarirlo, non è un album di facile ascolto “Between the brain and the behaviour”, come non è un genere di facile ascolto il doom, che qui spadroneggia su tutte le altre più o meno marcate deviazioni stilistiche, non lo è ed è giusto così, ma se le atmosfere cupe delle inquietudini vi sono affini, se siete disposti ad ascoltare un incubo in musica senza lasciarvi fermare dal polso che aumenta e diminuisce bruscamente da un secondo all’altro, allora “Between the brain and the behaviour” fa per voi, ascoltare per credere…
Voto: 7,5
Tracklist
1. Lebanon, 1823
2. No longer Gage
3. Left frontal lobe
4. Dr. John Martyn Harlow
5. Pulse 60, and regular
6. Ptosis
7. Lone mountain
Nasce a Roma, vive a Londra e sogna Broadway, ama Frank Sinatra e i Led Zeppelin, la perfezione del canto lirico e il suono polveroso e sporco del blues, cresce ascoltando il jazz e il soul di Etta James e Billie Holiday, ma quando sale sul palco con la sua band canta Springsteen, Janis Joplin e i Guns N’Roses. Tutto questo è Nicole di Gioacchino, cantante e vocalist romana di nascita, londinese di adozione e viaggiatrice per vocazione, 20 anni, una voce esplosiva che copre tre ottave e una carriera iniziata prestissimo, con le lezioni di canto prese da piccolissima, e scandita da diverse collaborazioni illustri nell’ambiente della musica italiana e dello spettacolo, l’ingresso nel coro pop-gospel SAT&B e infine i musical, vero amore di Nicole che anno dopo anno si trasforma prima in un sogno e poi in realtà: a 16 anni è tra le protagoniste di “’68 italian rock musical” e a 17 partecipando come soprano ai cori dell’opera di Michele Guardì “I promessi sposi”. E poi ancora due band e un duo blues all’attivo, partecipazioni a concerti-evento e festival, insomma, una carriera da fare già invidia e un futuro che si prospetta più che roseo...
Il 2013 è l’anno del debutto ufficiale di Nicole, verrà pubblicato infatti il suo primo singolo, prodotto dal DJ e producer irlandese Des Mallon, e allora andiamo a conoscerla meglio!
d: Ciao Nicole, cominciamo dal principio, hai cominciato ad avvicinarti alla musica e alla canzone da molto piccola, come è nata questa tua passione per la musica e per il canto?
R: Ciao! In realtà è una domanda che incuriosisce me per prima: non ho mai saputo rispondere con una motivazione reale, è come se fosse nato tutto in modo molto naturale. Sapevo di avere un legame particolare con questa Forma Suprema di comunicazione. Ero molto diversa da come sono ora, ero la timidezza fatta bambina ed ogni giorno lo passavo con il “porgi l’altra guancia”, parlavo poco. Dall’asilo alle scuole superiori ho avuto una mutazione quasi totale direi, grazie alle esperienze di cui avremo modo di parlare più avanti, se non fosse per la costante frase degli insegnanti ai miei genitori: “E’ come se Nicole fosse su un altro pianeta. C’è, ma è come se stesse da un’altra parte e glielo leggi negli occhi”. Era vero: la maggior parte delle volte pensavo alle partiture da studiare per il pomeriggio stesso per la scuola di musica, la band, lo show, a seconda dell’anno in cui mi veniva detto. A 4 anni sono andata da mia mamma e le ho detto “Voglio studiare canto mamma, voglio essere Christine” (Avevo appena visto The Phantom Of The Opera a New York). E loro mi hanno lasciata fare.
d: Tra le tue fonti di ispirazione si possono leggere grandissimi nomi, tra i quali Frank Sinatra, Janis Joplin, Etta James e i Led Zeppelin, insomma, il tuo iPod dev'essere un bel casino! Come si amalgamano le influenze di artisti di generi tanto distanti? Cosa ha in comune la Nicole che ascolta gli Zep con quella che ascolta Sinatra?
R: Il mio iPod E’ un vero e proprio casino! Credo che il merito di avere tante influenze diverse sia prima di tutto dei miei genitori. Mia madre è un’appassionata di Frank Sinatra, di tutto quello che ha a che fare con lo swing, ma anche della Whitney degli anni ’80, essendo cresciuta con lei. (Mia madre è più giovane di me!). Gli Zeppelin e Springsteen invece mi ricordano mio padre, le volte che salivo in macchina e avevamo i loro CD ad libitum. Nicole che ascolta Frank è la stessa che ascolta gli Zep perché è lì che sarò sempre bambina: sono quelle cose che mi faranno sempre ricordare come ho cominciato, l’importanza di tornare sempre a casa e che non sono poi così distante da quello che ero, perché per me il momento più bello della giornata era sempre quello in cui dovevo andare a lezione di canto. E poi vogliamo parlare dell’assoluta grandezza del blues…?
d: Oltre alla musica nella tua vita c'è un'altra costante, il viaggio, quanto conta per te viaggiare e quale impatto ha il viaggio sulla tua esperienza musicale e artistica?
R: Il viaggio per me rappresenta la completezza dell’essere. Puoi essere chiunque, puoi fare qualunque cosa, ma se non hai viaggiato hai meno di uno che lo fa. Sarà che io da quando sono nata ogni 5-6 mesi ho una destinazione di viaggio diversa, sia perché fortunatamente abbiamo avuto le possibilità di farlo, sia perché siamo tutti super patiti di viaggi in famiglia. Mio nonno, scomparso non molti anni fa, era un fotografo della compagnia americana Associated Press (le sue foto erano sul Messaggero negli anni ’70, ’80 e ’90) e grazie a quel lavoro ha potuto girare il mondo, a volte anche accanto a Papa Wojtyla. Mia madre si faceva raccontare le storie di quei paesi, dall’India al Messico, agli Stati Uniti, all’Africa, e ne restava affascinata, come accadeva a me poi non moltissimi anni dopo. Rubavo le cartelle che mio nonno teneva nel suo stanzino e sbirciavo tutte le foto fatte in giro per il mondo. Lui è lo stesso che poi mi ha insegnato tutto quello che so sulla fotografia, mia altra supergigante passione. Proprio perché amo viaggiare ho seguito le orme di mia madre, che a 18 anni è andata a vivere a Brighton (qualche anno dopo è tornata e ha avuto me) e sono venuta a vivere a Londra. Ma non so per quanto, visto che ho già in mente una prossima meta…
d: A sei anni duetti con i Pooh, a 12 affianchi i Negramaro e Mariella Nava, a 14 lavori con Teddy Reno e a 19 ricevi i complimenti di Leon Hendrix per la tua esecuzione di "Whole Lotta Love" al "Rock city" di Roma. Quali sono le sensazioni del lavorare fianco a fianco con artisti come questi e di incontrare un vero e proprio mito come Leon? In futuro, con chi vorresti duettare?
R: Le sensazioni a volte sono indescrivibili e vorresti che non finisse mai. Ma ho tanta, tantissima strada da fare e sono un tipo che sogna decisamente in grande. Tutti dicono sempre “Io non sarò mai uno di quelli”. Io invece a volte penso il contrario: “E se fossi io uno di quelli?”. Questo è il mantra che mi ha fatto lottare contro bocciature, falsi amici, colleghi capaci e non, serpi e cattive compagnie. Quando sai fare qualcosa ti vogliono buttare giù, vederti realizzata sarebbe lo specchio del loro fallimento, ma questa è un’altra storia. Insomma, non sono un tipo che si perde d’animo e alcune di queste collaborazioni le ho ottenute per pura fortuna, altre grazie alla mia determinazione.
A 14 anni volevo tatuarmi il logo degli Aerosmith sulla schiena. Una cosa tamarrissima, ma quello che volevo (e che sotto sotto ancora bramo) era SOLAMENTE fare un paio di canzoncine con il signor Steven Tyler! Ma scherzi a parte, purtroppo quelli con cui mi sarebbe piaciuto cantare non sono più nel mondo dei vivi e quelli che rimpiango più in assoluto sono Etta, Janis e Frank. Anche se Steven Tyler e Robert Plant sono ancora vivi, e forse posso rifarmi con l’erede, magari esce qualcosa con Michael Bublé, non si può mai sapere :)
d: Collaborazioni importanti, due rock band e un duo blues all'attivo, e infine i musical, prima il "'68 italian rock musical", poi "I promessi sposi", quando e come hai cominciato ad appassionarti ai musical? Quanto è lontano Broadway?
R: Sinceramente? Il musical è stata la cosa più inaspettata che potessi trovare nel mio percorso artistico!
Ne ho visti diversi a Broadway e poi qui a Londra sin da piccola, ma non avrei mai pensato di poter affrontare una preparazione per poter un giorno essere una performer. Avendo studiato con noti nomi del vocal coaching nel musical italiano come Gabriella Scalise, e pochi anni dopo con Francesco di Nicola, ho conosciuto aspetti tecnici della formazione fisica del mio apparato vocale, che mi hanno aiutato a perfezionare il suono e la voce stessa. Poi grazie a ’68 Italian Rock Musical, scritto e prodotto da alcuni dei nomi più influenti a livello di vocal coach, performers, attori e insegnanti come Maria Grazia Fontana, Attilio Fontana, Luca Velletri, Giulio Costa, Michela Andreozzi e Orazio Caiti, ho potuto portare questi studi sul campo stesso. Non smetterò mai di ringraziare questi nomi, uno ad uno, perché mi hanno resa una persona diversa, finalmente consapevole del dono che potevo portare con me stessa, ma consapevole anche del sacrificio che avrei dovuto fare per portarlo avanti. Avevo 16 anni e la mattina dopo lo spettacolo dovevo sempre ritornare a scuola, ed era ogni giorno una lotta perché nessuno capiva che la musica può essere (ed è a tutti gli effetti) un lavoro. E quelli erano gli anni in cui il mio ego cominciava ad essere un po’ più grande delle mie paure, gli anni in cui ho tirato fuori me stessa al 100% perché la musica è l’unica cosa che sapevo fare e volevo fare.
Un lavoro tosto, duro, che non ti lascia mai alcuna certezza se non quella per la quale hai cominciato, ovvero l’amore per la musica stessa. E’ solo l’amore che ti porta avanti, sempre e solo quello.
d: A 18 anni hai partecipato a X-Factor, e devo dire che è quantomeno raro vedere qualcuno con una formazione artistica come la tua partecipare ad un talent, programmi che per definizione tendono a prediligere il pop, come mai questa scelta? Che tipo di esperienza è stata?
R: X-Factor mi ha fatto capire tante cose, ma una più di tutte: quello che non voglio nella mia vita.
Io sono quella che sogna Broadway e Hollywood insieme, il glam, i glitter, oro, sono egocentrica a volte da far schifo, un po’ strana e mentire è l’ultima cosa che so fare. Però ci ho provato, mi sono detta “magari funziona”. E fino ad un certo punto è stato così. Poi per motivi apparentemente incompresi all’inizio, ma poi per fortuna capiti da chiunque abbia un livello di conoscenza musicale decente, non ho potuto continuare il mio percorso. Ci sono rimasta male, non poco inizialmente, ma aldilà di tutto ho conosciuto amici con cui ancora adesso ho un ottimo rapporto e quello a cui sono più vicina è Landon Gadoci, un biondino texano che qualche anni fa ha cominciato a fare video su YouTube, accumulando milioni di visualizzazioni. Ha una vocalità da brivido e con lui ho collaborato anche recentemente in un mash up che si può trovare sui nostri rispettivi canali di YouTube (http://youtube.com/nicoleofficialtube – http://youtube.com/gadoci). Lui da Austin spesso viene in Italia e io sto pianificando di andare fra non molto in Texas, facciamo serate e sessioni di studio di registrazione insieme. E’ un grande amico ed un grandissimo artista, ci stimiamo a vicenda e abbiamo un’affinità musicale che ho potuto trovare con pochissimi altri artisti, sempre miei grandissimi amici.
d: Progetti per il futuro? Sogni nel cassetto?
R: Bella domanda, ma il pentolone qui ribolle di novità! Da quando sono a Londra ho cercato subito lavoro per stabilizzarmi, ma ho ricevuto da poco una notizia mega-super-gigantemente meravigliosa: sono stata presa nel coro gospel londinese Urban Voices Collective, fresco di Cerimonia di Chiusura alle Olimpiadi 2012 in duetto con i Muse, e soprattutto appena usciti dagli Abbey Road Studios per il loro EP. Non vedo l’ora di cominciare a lavorare perché sono super entusiasta! Nel frattempo continuo a lavorare sul mio singolo prodotto dall’irlandese Des Mallon, in uscita nei prossimi mesi con distribuzione mondiale e su iTunes.
Da quando vivo qui non so mai cosa farò il giorno dopo, e mi piace così. Ho sempre i miei sogni e me li tengo stretti, ma lavoro perché prima o poi diventino realtà, e tra questi c’è un contratto con una grossa etichetta discografica. Come ho detto, sono quella da Broadway e Hollywood insieme… che cosa vi aspettavate? :)
“Do it yourself“, un monito che dagli anni ’90 è diventato una sorta di dogma, un dettame che ha proverbialmente trasformato la necessità in virtù, divenendo un punto d’onore da sfoggiare come una medaglia che testimonia la tenacia di chi insegue il sogno artistico e non monetario.
Ma si sa, quando è cotta la frittata si rigira facilmente, e così con il passare degli anni quel punto d’onore – che dovrebbe derivare da meriti artistici relegati in un angolo dall’orecchio disattento delle major – è diventato una sorta di fregio snobistico, perché essere indie è figo a prescindere e tutto il resto è noia, perché se una band si autoproduce e l’anno successivo viene scoperta e messa sotto contratto dalla EMI allora “sono dei venduti”, come se l’ambizione di un musicista o di un cantante dovesse essere quella di suonare solo e soltanto per piacere continuando a fare un lavoro ed una vita normali, e non di poter vivere della propria musica dedicandocisi anima e corpo senza dover chiedere giorni di permesso al capo reparto.
Questa non è certo una crociata contro le band che si autoproducono, anzi, ben venga il coraggio di lavorare sodo e tanto di cappello a chi non si lascia abbattere dalle difficoltà che il cercare di emergere si porta appresso, ma quella dell’indie è una questione che mi ha sempre dato da pensare e della quale ho sempre temuto le conseguenze; per quale ragione una band si definisce “indie-rock”? Perché non semplicemente “Rock”? Cosa aggiunge la parola indie alla definizione di un genere musicale? L’impressione è che la sola parola indie sia diventata in molti casi una sorta di scudo, una maschera snob e spesso intellettualoide da mostrare per non rischiare troppo, perché se fai rock e lo fai male, pigli le critiche e le porti a casa, se invece fai “indie-rock” chi ti critica lo fa perché non capisce ed è troppo legato al “mainstream”, che è un po’ come quando la tua ragazza in piscina fa dei confronti tra il tuo fisico e quello del bagnino e tu – con la pancetta bene in vista – rispondi “Si, ma di sicuro è gay“….
Tutto questo sproloquio per dire che ci sono parole fastidiose, e la parola “indie” lo sta diventando sempre più, e così è una bella sensazione, fra decine di album indie-qualcosa, ascoltare un album punk. Punto. Senza quell’odiosa parolina che onestamente mi sono stufato di utilizzare e di cui il punk non avrà mai bisogno. E poco importa se i friulani Carry-All siano davvero indipendenti e autoprodotti, perché il “Do it yourself” – che pure si respira in tutti i brani – si trasforma nel più divertente “Drink it yourself” che dà il titolo al nuovo lavoro della band udinese, attiva da ormai più di 10 anni e con interessanti lavori alle spalle, non ultimo “Emotivhate”, predecessore di “Drink it yourself” datato 2008.
Un titolo divertente per un album altrettanto divertente, casinista, punk nel midollo, eppure capace di mantenere una spiccata originalità: l’album infatti non finisce nella prevedibilità dei cliché tipici delle punk band, non scimmiotta ne i Ramones, ne i Sex Pistols, ne tantomeno il punk più moderno di Offspring o Green Day, certo, qualche richiamo c’è, è innegabile, e lungo le 13 tracce che compongono l’album si possono chiaramente leggere le influenze di questi gruppi, oltre a quelle più marcate di Pennywise, NOFX, Rancid e Exploited, ma sono influenze che riescono a rimanere tali e che aggiungono qui e là elementi sonori riconoscibili che si amalgamano in maniera splendida con ispirazioni differenti e dal sapore vintage.
In “Drink it yourself” infatti i ritmi punk si mescolano con vibrazioni più rock, qualche traccia – seppur lieve – di blues, lo ska con i suoi ottoni squillanti, lo psychobilly ed il rockabilly nei brani più ballabili ed un hardcore punk di gran classe nei pezzi più secchi e chiassosi, e poi ancora piccoli richiami sapientemente dosati lungo i circa 40 minuti di durata dell’album. Il risultato è un disco fluido, senza cedimenti o bruschi cambi di rotta, tanto scanzonato quanto ribelle, serio e critico, ma anche un po’ cazzone, che si apre con la dichiarazione di intenti su tempo swing di “I do it for myself”, e prosegue alternando brani dai contenuti caustici come “Nothing changes (in Italy)” o “It doesn’t matter” con pezzi che divertono con leggerezza come “Denise was a liar” ed altri tanto espressivi nella loro natura vintage da trasportare l’ascoltatore in fascinosi scenari della prima metà del secolo scorso, e ne sono un esempio “You rascal you” e la splendida “Rocking Rag”, divertissement a metà tra punk e charleston che viene posto a degna chiusura di un album dal sapore allo stesso tempo morbido e pungente, eterogeneo in tutto e per tutto, ma amalgamato con sapienza e suonato in maniera impeccabile.
Ci sono tanti elementi in “Drink it yourself” da poter scrivere ancora diverse centinaia di parole, perché ogni brano si meriterebbe una piccola analisi, e così si dovrebbe fare per la copertina, vintage ed ironica come l’intero disco, ma la questione principale è una, e risulta evidente soltanto mettendo il cd nello stereo e premendo play, la questione è che l’originalità non è qualcosa che si compra, e nemmeno si acquisisce per bontà divina sventolando l’etichetta dell’indie, l’originalità, come la genialità, sta nelle cose piccole, nel doo-wop che si mescola con l’hardcore, nel rock rabbioso che si sposa con lo swing, in un punk che non sembra punk, ma che in fondo proprio per questo lo è ancor di più. In mezzo a tanti “indie” e tanti “alternative” tutti uguali è bello trovare una band davvero originale e alternativa, e allora complimenti ai Carry-All! Avanti così!
Voto: 8
Tracklist
1. I do it for myself
2. D.I.Y.
3. Denise was a liar
4. It doesn’t matter
5. Distorted reality
6. Brand new day
7. Double malt happiness
8. What’s the matter with us?
9. You rascal you (Fletcher Henderson cover)
10. No fun in my hometown
11. Nothing changes (in Italy)
12. My own way
13. Rocking rag
Ricevo ed integralmente il comunicato per la prima mondiale di "Last Far West" al festival di Cannes 2013.
"LAST FAR WEST"
prima mondiale
al Festival di Cannes 2013
Sezione Short Film Corner
In occasione del 66° edizione del Festival di Cannes, che si svolgerà dal 18 al 25 maggio 2013, la produzione indipendente Kina&Cris Studios presenta Last Far West, cortometraggio ammesso nella sezione Short Film Corner.
Il sipario si apre in un salone di una antica casa nobiliare nel quale un notaio espone ai presenti non un testamento ereditario bensì un piccolo elenco di volontà dell’anziana signora deceduta. Ad assistere alla lettura di questi ultimi desideri vi sono due figli ed un nipote sconcertati dalle richieste insolite e stravaganti della loro cara. Le volontà vertono tutte sulle esequie stesse della donna che punto dopo punto sviscera i passaggi e le tappe del suo ultimo viaggio. I figli irritati, provando ad accantonare queste idee strampalate, si scontrano con la determinazione del nipote intento ad onorare, passo dopo passo, queste ultime volontà.
L'idea
L'idea nasce a Gennaio 2013. Le riprese vengono effettuate dal 1 al 6 Febbraio;neisuccessivi 20 giorni il prodotto viene montato e sonorizzato. Finisce la produzione a fine marzo 2013.
L'obiettivo era : partecipare nuovamente al festival di Cannes (data la partecipazione al 65' Festival di Cannes-2012- con il corto "Horror Vacui" sempre diretto dal duo Cristian Iezzi e Chiara De Marchis, scritto da Davide Carrazza).
“LAST FAR WEST” è un prodotto low-budget, realizzato con la collaborazione di tanti professionisti che hanno creduto nel progetto.
LAST FAR WEST
durata:
22 minuti
genere:
Commedia
prodotto da
Alveare Cinema e Kina&Cris Studios
diretto da
Cristian Iezzi e Chiara De Marchis
scritto da
Davide Carrazza
con
Remo Stella
con l'amichevole partecipazione di
Tommaso Busiello
e
Maurizio Annesi, Carlo Altomonte e Stefano Piacenti
in collaborazione con
Trans Audio Video S.R.L. e Marco Brighel
colonna sonora originale di
Michele Bettali, Stefano Carrara e Fabrizio Castanìa
Si ringraziano inoltre: Canon Cinema Eos, Rita Forzano, gli operatori e tecnici pre e post produzione
Catalogo Short Film Corner – Festival de Cannes 2013 (cercare Last Far West)
Un pianoforte, una voce e le immagini che scorrono, qualche foto ricordo e qualcun'altra presa da internet, un video semplice, come se ne trovano a centinaia su Youtube, ma seguite il consiglio e trovate tre minuti e mezzo per ascoltare con attenzione le parole e guardare questo video, realizzato nei ritagli di tempo di chi si alza presto la mattina e va a letto tardi la sera, riuscendo ad essere lavoratore, marito e padre, trovando comunque il tempo di coltivare le proprie passioni. Un grande musicista qualche decennio fa disse che sono le storie a fare la musica, e quella di Dante Francani è una storia che merita di essere ascoltata...
Dante è un rosetano di trentotto anni, un uomo come tanti, con una moglie, una figlia ed un lavoro che lo porta ad indossare la tuta blu, quella tuta blu della quale il nostro paese non può fare a meno, la stessa tuta blu a cui i nostri politici fingono di dare importanza, e della quale paventano di comprendere le difficoltà senza nemmeno averla mai indossata. E' difficile la vita per chi indossa quella tuta, e negli ultimi anni lo è sempre di più, con un mercato del lavoro votato alla minor assunzione di responsabilità possibile, stabilimenti che chiudono per trasferirsi all'estero ed una politica che ogni anno appare sempre più distante dalla realtà, da una realtà fatta di sacrifici che non finiscono mai, di briciole di risparmi messi da parte mentre le notizie sui giornali parlano di stipendi stratosferici, posti di lavoro regalati e milioni di euro spesi per l'acquisto di un calciatore, ed allora come si fa a non ribollire di rabbia? Come si fa a stare zitti? Non si può tacere di fronte a questo scempio, è così che Dante decide di sedersi di fronte al pianoforte e tradurre la sua rabbia in musica, compone una base leggera e semplice, e su questa base cadenza parole che raccontano della fatica che lacera di giorno in giorno, ma soprattutto di quanto tutta questa fatica non venga ripagata dal "verro" che ingrassa sulle spalle dei lavoratori, di quanto "quel rapporo salario-lavoro ti leva il rispetto, ti toglie decoro" e di quanto ci si senta impotenti nel vedere che "aumenta tutto tranne il tuo stipendio" e che "un calcio a un pallone vale un milione mentre il tuo sudore non vale più niente". Sono parole nervose, frutto di un risentimento che è impossibile non giustificare, parole disilluse di chi è fiero di indossare una tuta blu e di sporcarsi le mani sapendo di fare il proprio dovere civico e morale, ma è costretto a sopportare ingiustizie ogni giorno più pesanti, a vedere il divario economico e sociale allargarsi, a sentirsi addosso il menefreghismo di una classe politica "di destra o sinistra ma coi soldi in tasca", che si riempie la bocca di belle parole, di solidarietà verso i lavoratori e di promesse che sono sempre le stesse da decenni, promesse dalla "priorità assoluta" in campagna elettorale e che poi magicamente passano in secondo piano, eclissate da processi da evitare, opere inutili da realizzare soltanto per potersene vantare alle prossime elezioni, nebulose finanziarie delle quali è tutto poco chiaro tranne il fatto che a pagarle saranno sempre i soliti, parenti, amici, mafiosi, nani e ballerine da piazzare a piacimento nelle stanze del potere, il tutto - quasi fosse l'ennesima beffa - fatto alla luce del sole mentre si inneggia all'equità e alla meritocrazia...
E' evidente, evidentissima, la sensazione che la politica sia qualcosa di irraggiungibile, una sorta di mondo a sè che decide le sorti del mondo reale, ed è una distanza che bisogna necessariamente appianare, perchè se la "casta" riesce a fare ciò che fa senza finire alla ghigliottina, la colpa, in fondo, è da cercare dentro di noi, è da cercare nell'indifferenza più grave, quella fatta dei "tanto sono tutti uguali" e dei "non cambierà mai niente", l'indifferenza di chi per uno stipendio da fame arriva a casa ogni sera sfinito, eppure parla del campionato di calcio, delle veline e del grande fratello, il menefreghismo di chi sa tutto delle scappatelle di Balotelli ma non è in grado di leggere la propria busta paga, quella stessa indifferenza di cui Gramsci quasi 100 anni fa diceva "è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria", e a dire il vero sembra non essere cambiata una virgola, perchè ancora oggi gli indifferenti "piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?". E' proprio a queste persone che Dante dedica la sua "Tuta blu" o "Ballata dell'operaio", ed è sempre a loro che dedica lo sfogo forse più sentito, incitando ad uscire da questa assuefazione della mente, nella speranza che qualche coscienza si svegli dal torpore e che qualcuno spenga la televisione per trasmettere ai propri figli un po' di cultuta, di memoria storica, di rispetto per i lavoratori e il lavoro, di passione per quella libertà che - Gaber docet - è partecipazione.
Ricevo ed interamente pubblico la recensione, a cura di Antonino Giorgianni, de "La casa degli spiriti perduti", interessantissimo album di debutto di Nevruz:
Secondo disco per Nevruz Joku che, dopo i fasti della quarta edizione di X-Factor, si affaccia nuovamente alla ribalta con quella che è a tutti gli effetti la sua opera prima: La casa e gli spiriti perduti.
Il disco è pubblicato dalla Hukapan Dischi, l'etichetta di Elio e le storie tese. Produzione di tutto rispetto, quindi, per un lavoro che si rivela interessante ed insolito.
Il cantautore modenese attinge a piene mani alle atmosfere della dark wave italiana (Diaframma e Litfiba su tutti), coniugandole con suoni scabri, precisi ed efficaci. Echi di industrial e possenti riff di puro rock condiscono il tutto. Ne risulta un sound pieno, complesso e robusto che non può non appagare l'orecchio di chi ascolta
I testi arrivano diretti al bersaglio, precisi come un colpo di bisturi. Parlano di solitudine, follia, smarrimento. Appare evidente l'ossessiva, insistita ricerca del senso della vita attraverso l'amore: sentimento che Nevruz rappresenta come bussola, guida attraverso le pulsioni e le devianze dell'animo umano.
L'interpretazione dei brani è spesso violenta, sempre passionale. Notevole la versatilità della voce, velata di echi di Modugno, Pelù, Stratos, eppure così personale ed inconfondibile.
Ad assistere Nevruz nella sua fatica troviamo: Batteria : Matteo Rosestolato - Basso: Alessandro Giliberti - Chitarra : Elia Garutti – Pianoforte & Sinth: Filippo Lui e Giulio Saltini - Viloncello : Pietro Orlandi), ensemble di giovani maestri rock della bassa modenese. Ciliegina sulla torta la collaborazione di Roberto Gualdi, Faso e Cesareo, rispettivamente batteria, basso e chitarre nei brani Magia e Rifletto.
Il risultato finale è un disco accattivante, energico, aspro, dotato di un appeal non comune, adatto a ben figurare nel panorama musicale italiano e non solo.
Fine Agosto. Mattina presto. Il sole resta ancora basso quasi non volesse disturbare, ma tu sei già sveglio, bermuda, infradito e Ray-Ban rossi, valigie in mano riempi il baule della macchina con gli occhi di chi fino al giorno prima se ne andava a fare colazione in spiaggia ed ora invece, riconsegnate controvoglia le chiavi della stanza, la spiaggia la vedrà scorrere dal finestrino. Ti siedi in macchina e lei, sul sedile accanto, ti guarda con aria malinconica e dice: "Anche quest'anno sono andate".
Tu lo sai che le vacanze ormai sono finite, ma nella tua mente pensi "Finchè non vedo il cancello di casa non mollo", sperando forse di trovare una ventiquattr'ore piena di soldi nel bagno dell'autogrill, o qualcosa di ancora più assurdo che ti trascini il più lontano possibile dal tuo triste ufficio che si avvicina sempre di più, niente radio FM quindi, per non incorrere in notiziari sul traffico, previsioni meteo che parlano di piogge in arrivo, niente digressioni calcistiche precampionato, niente che ti ricordi che siamo a fine Agosto, niente che non riporti - almeno con il pensiero - a piedi nudi sulla sabbia. E allora infili un cd nell'autoradio, lo scegli con cura, non sia mai che capitasse di far partire un disco deprimente o - peggio ancora - quella vecchia compilation di tormentoni estivi che avevi masterizzato con disgusto per tua sorella e che puntualmente ti dimentichi di levare dal portaoggetti, no, hai un bisogno ben preciso, quello di ascoltare qualcosa che odori di salsedine, qualcosa che ti faccia sentire i granelli di sabbia tra le dita dei piedi, qualcosa che si sposi con i 100 all'ora che tieni in autostrada, con i finestrini abbassati e il vento che ti smuove i capelli. E' in momenti come questo che un album come "Differences" suona tremendamente giusto...
Di mare negli specchietti retrovisori e di salsedine ne sanno sicuramente moltissimo Pierfrancesco Carletti , Giuseppe Gaggiotti, Andrea Monachesi e Gabriele Tomasetti, i componenti del quartetto dei North, band nata nelle Marche, lungo la east coast italiana nello splendido scenario del parco del Conero. I quattro, come sempre più spesso succede nella musica e in modo particolare nel nostro paese, seguono il filone del DIY, autoproducendo orgogliosamente il loro EP di debutto, "Differences", disco di 7 tracce pubblicato lo scorso 20 dicembre e per il quale al missaggio si sono avvalsi della collaborazione di Luca Gobbi dei Karibean, e il risultato è un album che pesca a piene mani dagli anni '90. La band torna indietro nel tempo di 20 anni o poco più, agli albori dell'indie, quando i plasticosi anni '80 volgevano ormai al termine e la apparente spensieratezza dei loro suoni sintetici veniva oscurata da un'ombra di malinconia, lo specchio di una generazione incastrata dall'anagrafe nel limbo del "dopo": il '68, per chi già c'era, era passato impercettibilmente tra le sbarre di una culla, e gli anni '70 vissuti correndo dietro al pallone certo non avevano lo stesso sapore... Una generazione, quella degli adolescenti e post-adolescenti degli ultimi anni '80, vissuta con il mito del fratello maggiore che ricordava i moti sessantottini e l'esplosione del punk, e quindi indissolubilmente legata ad una nostalgia di epoche non vissute.
Era la generazione divisa tra paninari e dark, combattuta tra la voglia di godersi a pieno ogni giorno dell'adolescenza e la consapevolezza - vissuta in modo estremamente malinconico - dell'età adulta sempre più prossima, un dualismo che nella musica dà il via al grunge, alla dark wave, all'indie e a tutta quell'ondata di sonorità che mescolano generi diversi per trovare una propria dimensione, dimensione che si concretizza con band storiche come i Weezer o i Dinosaur Jr della prima metamorfosi, ed è proprio lì che i North puntano il dito, sposando l'inglese per i testi e costruendo le musiche su linee di basso incalzanti e chitarre ritmate. Quello che ne viene fuori sono sette brani che parlano del presente guardando al passato, brani da specchietto retrovisore, con le note e le parole che scorrono trasformandosi in ricordi, con gli arrangiamenti che sanno di divertimento e le liriche che patinano il tutto come la polvere sulle vecchie polaroid, istantanee di un'adolescenza che fa sempre piacere riscoprire, in una noiosa domenica di settembre quanto in macchina durante un viaggio di ritorno, tra i "Ti ricordi che serate quell'anno?" e i "Ma quante ne abbiamo passate?". Le si potrebbe chiamare "memorie spensierate", anche se forse potrebbe assomigliare ad un ossimoro, eppure basta ascoltare pezzi come la opening track "New life", o le splendide "No way out" e "Free as you" perchè nella mente riaffiorino immagini di estati passate, scappi una risata e allo stesso tempo un velo di amarezza si faccia sentire, non troppo, quel tanto che basta per dare un sapore agrodolce alle emozioni e far posare lo sguardo sul panorama che passa dal finestrino, un po' tristi forse, ma in qualche modo soddisfatti.
E' proprio così che ci si sente ascoltando "Differences", soddisfatti e tristi allo stesso tempo, con mille pensieri e ricordi nella testa, ma contemporaneamente con la sensazione contraria, quella di una sana, sanissima scanzonatezza. Musicalmente i North scelgono la propria dimensione e non escono moltissimo dal seminato, prendono la ricetta scritta dagli Weezer e per ora scelgono di non aggiungere nulla di particolare o personale, forse l'unica nota leggermente negativa, ma tant'è, per la personalizzazione del suono c'è tutto il tempo, si vedrà con i prossimi lavori, intanto "Differences" scorre piacevolmente, senza deviazioni o cadute, e nel frattempo l'enorme cartello verde in alto ti dice che la prossima uscita è la tua, metti la freccia, raggiungi il casello e digerisci il fatto che le vacanze sono finite sul serio, ma sai benissimo che al prossimo viaggio, magari sulle stesse note, tornerai a dire "Te la ricordi quella volta?", e sorridi compiaciuto...
Voto: 7,5
Tracklist
1. New Life
2. Differences
3. Waste Your Time
4. A Song For Your Boyfriend
5. No Way Out
6. Free As You
7. Another Garbage