sabato 20 aprile 2013

Aidan - The Relation between Brain and Behaviour



La musica, in qualsiasi direzione artistica la si intenda, è e deve essere prima di ogni altra cosa evocativa, che ciò da evocare sia un’immagine, una sensazione, un’idea, un ricordo o chissà cos’altro; in questo senso spesso le parole non servono, la sola musica disegna scenari di ogni tipo, e quando si parla di doom metal gli scenari sono quelli più oscuri dell’animo umano…

È negli abissi dell’anima e della mente umana, lì dove restano rinchiusi incubi, stranezze, ossessioni e paure, che ci si trova ad attraversare gli anfratti più bui dell’esistenza, dove l’inconscio prende il sopravvento e la luce filtra ben poco, dove la vista è occlusa e bisogna procedere a tentoni, ed è proprio qui, tra ombre scure e pochi, pochissimi spiragli luminosi che comincia questa storia, una storia strana e non poco inquietante, la storia di un uomo normale a cui la vita volle giocare uno strano scherzo, un tiro mancino che lo cambiò radicalmente, inoltrandosi nel buio abisso della sua mente, scalfendo le pareti portanti del conscio e dell’inconscio e consegnando Phineas Gage – questo era il suo nome – alla storia… Phineas era un operaio americano addetto alla costruzione delle ferrovie, un lavoratore, un uomo per bene, un uomo come tanti, fino al pomeriggio di quel fatidico 13 settembre 1848, quando un incidente gli cambiò per sempre la vita.

Durante il lavoro Phineas venne colpito alla testa da un’asta di metallo che gli trapassò il cranio, ma che – incredibilmente – non lo uccise; l’uomo sopravvisse e, fatto ancora più stupefacente, la sua ripresa dal trauma fu praticamente immediata, ma non fu più il Phineas di prima, il suo comportamento cambiò definitivamente, e quello che prima dell’incidente era un uomo gentile divenne scontroso, irascibile ed incontrollabile, la sua personalità cambiò di colpo a causa di quell’asta di metallo, che lo lobotomizzò, rendendolo incapace di valutare i rischi delle proprie azioni e trasformandolo a conti fatti in un’altra persona, fisicamente sana, ma irrimediabilmente condannata a vivere un incubo.

Una storia degna di un film horror, ed ancor più inquietante proprio perché realmente accaduta: l’incidente di Phineas Gage infatti è stato ed è ancora oggi oggetto di studio nell’ambito della neurochirurgia, ed è uno dei punti sui quali si basarono le teorie che portarono alla pratica – fortunatamente abbandonata – della lobotomia frontale, ma non è per raccontare la storia della medicina che siamo qui, bensì per fare un viaggio, un viaggio al centro della mente umana, lì dove la sorte ha colpito con tutta la sua forza il povero Phineas, lì dove un bel giorno, senza nessun apparente motivo, la luce si spegne e si sprofonda nell’oblìo. Ad accompagnarci in questo viaggio troviamo gli Aidan, trio padovano incline al post-metal ed alle sue deviazioni più oscure e doom, nulla di più azzeccato per addentrarsi nei meandri di un cervello sconvolto, di un animo shockato…. “The relation between brain and behaviour“, così si intitola l’album di debutto della formazione veneta, pubblicato il 21 gennaio scorso, un album tenebroso, plumbeo come la sua copertina, un concept perennemente in bilico tra linee di basso imponenti e vibrazioni drone, incentrato sulla vicenda di Phineas, in qualche modo inquadrata dall’interno, come se a fare da narratore lungo i 7 brani che compongono il disco ci sia lo stesso Phineas, con tutte le sue personalità…

Come da copione non troverete una sola parola nei brani dell’album, perché il doom per definizione è strumentale, a suo modo psicologico e l’utilizzo della voce sarebbe soltanto un elemento di distrazione dall’evocatività del suono, dai brividi che inquietano e trasportano proprio dove gli Aidan ci vogliono portare, nei cunicoli stretti ed imprevedibili di una mente deviata; e allora fate un respiro profondo, il cd è nello stereo e la discesa comincia….

Si parte con “Lebanon, 1823“, intro dall’inflessione distesa e dai suoni dilatati, un inizio dai toni grigi, apparentemente morbidi, che introduce la successiva “No longer Gage”, progressione ripetitiva ed ossessiva in cui ad ogni giro la tensione si alza, diventa palpabile, le linee si fanno più scure, la batteria inizia a far sentire la sua presenza, e sul crescendo finale nuvole nere si affacciano per il terzo brano. “Left frontal lobe” è il punto di svolta del racconto e dell’album, è qui che accade il patatrac, è in questo momento che la mente del protagonista viene sconvolta, deviata dall’avversa sorte, le luci si spengono del tutto, e quello che finora sembrava un sentiero ben tracciato incontra un baratro, un strapiombo travestito da una cavalcata al limite del black, non fosse per le potenti sferzate drone che giocano con i tempi pigiando ora sull’acceleratore ed ora di colpo sul freno.

Da qui in avanti quel che c’era prima non ci sarà mai più, e a darcene la conferma arriva “Dr. John Martyn Harlow”, un macigno sonoro che procede come un rullo compressore tra chitarre sempre più incisive, linee melodiche di Sabbathiana memoria ed un crescendo ritmico compulsivo, la mente e l’animo sono irrimediabilmente turbati, le visioni distorte e “Pulse 60, and regular” – che di fatto rallenta il ritmo – con il suo ambient-drone obnubilante incute nuove paure, insinua un nuovo terrore che si muove nel buio più totale in cui ci si ritrova a questo punto. Stiamo giungendo al termine del viaggio, ma in fondo al tunnel non c’è nessuna luce ad attenderci, è il buio a farla da padrone, e “Ptosis” nè è la dimostrazione più alta, una vibrazione inarrestabile, una serie di passi mossi tra i cunicoli umidi e freddi di un razioncinio che non c’è più, un avanzare inquieto, stanco e sconvolto che porta all’inevitabile declino finale di “Lone mountain”, gelido sludge violentemente cadenzato dalla batteria, snervante nei suoi oltre 8 minuti di durata, ma più che mai incisivo e azzeccato per terminare il racconto.

È meglio chiarirlo, non è un album di facile ascolto “Between the brain and the behaviour”, come non è un genere di facile ascolto il doom, che qui spadroneggia su tutte le altre più o meno marcate deviazioni stilistiche, non lo è ed è giusto così, ma se le atmosfere cupe delle inquietudini vi sono affini, se siete disposti ad ascoltare un incubo in musica senza lasciarvi fermare dal polso che aumenta e diminuisce bruscamente da un secondo all’altro, allora “Between the brain and the behaviour” fa per voi, ascoltare per credere…

Voto: 7,5

Tracklist

1. Lebanon, 1823
2. No longer Gage
3. Left frontal lobe
4. Dr. John Martyn Harlow
5. Pulse 60, and regular
6. Ptosis
7. Lone mountain



Recensione pubblicata su Oubliette Magazine

venerdì 19 aprile 2013

Intervista a Nicole Di Gioacchino, tra Sinatra e Led Zeppelin


Nasce a Roma, vive a Londra e sogna Broadway, ama Frank Sinatra e i Led Zeppelin, la perfezione del canto lirico e il suono polveroso e sporco del blues, cresce ascoltando il jazz e il soul di Etta James e Billie Holiday, ma quando sale sul palco con la sua band canta Springsteen, Janis Joplin e i Guns N’Roses. Tutto questo è Nicole di Gioacchino, cantante e vocalist romana di nascita, londinese di adozione e viaggiatrice per vocazione, 20 anni, una voce esplosiva che copre tre ottave e una carriera iniziata prestissimo, con le lezioni di canto prese da piccolissima, e scandita da diverse collaborazioni illustri nell’ambiente della musica italiana e dello spettacolo, l’ingresso nel coro pop-gospel SAT&B e infine i musical, vero amore di Nicole che anno dopo anno si trasforma prima in un sogno e poi in realtà: a 16 anni è tra le protagoniste di “’68 italian rock musical” e a 17 partecipando come soprano ai cori dell’opera di Michele Guardì “I promessi sposi”. E poi ancora due band e un duo blues all’attivo, partecipazioni a concerti-evento e festival,  insomma, una carriera da fare già invidia e un futuro che si prospetta più che roseo...

Il 2013 è l’anno del debutto ufficiale di Nicole, verrà pubblicato infatti il suo primo singolo, prodotto dal DJ e producer irlandese Des Mallon, e allora andiamo a conoscerla meglio!

d: Ciao Nicole, cominciamo dal principio, hai cominciato ad avvicinarti alla musica e alla canzone da molto piccola, come è nata questa tua passione per la musica e per il canto?

R: Ciao! In realtà è una domanda che incuriosisce me per prima: non ho mai saputo rispondere con una motivazione reale, è come se fosse nato tutto in modo molto naturale. Sapevo di avere un legame particolare con questa Forma Suprema di comunicazione. Ero molto diversa da come sono ora, ero la timidezza fatta bambina ed ogni giorno lo passavo con il “porgi l’altra guancia”, parlavo poco. Dall’asilo alle scuole superiori ho avuto una mutazione quasi totale direi, grazie alle esperienze di cui avremo modo di parlare più avanti, se non fosse per la costante frase degli insegnanti ai miei genitori: “E’ come se Nicole fosse su un altro pianeta. C’è, ma è come se stesse da un’altra parte e glielo leggi negli occhi”. Era vero: la maggior parte delle volte pensavo alle partiture da studiare per il pomeriggio stesso per la scuola di musica, la band, lo show, a seconda dell’anno in cui mi veniva detto. A 4 anni sono andata da mia mamma e le ho detto “Voglio studiare canto mamma, voglio essere Christine” (Avevo appena visto The Phantom Of The Opera a New York). E loro mi hanno lasciata fare.

d: Tra le tue fonti di ispirazione si possono leggere grandissimi nomi, tra i quali Frank Sinatra, Janis Joplin, Etta James e i Led Zeppelin, insomma, il tuo iPod dev'essere un bel casino! Come si amalgamano le influenze di artisti di generi tanto distanti? Cosa ha in comune la Nicole che ascolta gli Zep con quella che ascolta Sinatra?

R: Il mio iPod E’ un vero e proprio casino! Credo che il merito di avere tante influenze diverse sia prima di tutto dei miei genitori. Mia madre è un’appassionata di Frank Sinatra, di tutto quello che ha a che fare con lo swing, ma anche della Whitney degli anni ’80, essendo cresciuta con lei. (Mia madre è più giovane di me!). Gli Zeppelin e Springsteen invece mi ricordano mio padre, le volte che salivo in macchina e avevamo i loro CD ad libitum. Nicole che ascolta Frank è la stessa che ascolta gli Zep perché è lì che sarò sempre bambina: sono quelle cose che mi faranno sempre ricordare come ho cominciato, l’importanza di tornare sempre a casa e che non sono poi così distante da quello che ero, perché per me il momento più bello della giornata era sempre quello in cui dovevo andare a lezione di canto. E poi vogliamo parlare dell’assoluta grandezza del blues…?

d: Oltre alla musica nella tua vita c'è un'altra costante, il viaggio, quanto conta per te viaggiare e quale impatto ha il viaggio sulla tua esperienza musicale e artistica?

R: Il viaggio per me rappresenta la completezza dell’essere. Puoi essere chiunque, puoi fare qualunque cosa, ma se non hai viaggiato hai meno di uno che lo fa. Sarà che io da quando sono nata ogni 5-6 mesi ho una destinazione di viaggio diversa, sia perché fortunatamente abbiamo avuto le possibilità di farlo, sia perché siamo tutti super patiti di viaggi in famiglia. Mio nonno, scomparso non molti anni fa, era un fotografo della compagnia americana Associated Press (le sue foto erano sul Messaggero negli anni ’70, ’80 e ’90) e grazie a quel lavoro ha potuto girare il mondo, a volte anche accanto a Papa Wojtyla. Mia madre si faceva raccontare le storie di quei paesi, dall’India al Messico, agli Stati Uniti, all’Africa, e ne restava affascinata, come accadeva a me poi non moltissimi anni dopo. Rubavo le cartelle che mio nonno teneva nel suo stanzino e sbirciavo tutte le foto fatte in giro per il mondo. Lui è lo stesso che poi mi ha insegnato tutto quello che so sulla fotografia,  mia altra supergigante passione. Proprio perché amo viaggiare ho seguito le orme di mia madre, che a 18 anni è andata a vivere a Brighton (qualche anno dopo è tornata e ha avuto me) e sono venuta a vivere a Londra. Ma non so per quanto, visto che ho già in mente una prossima meta…

d: A sei anni duetti con i Pooh, a 12 affianchi i Negramaro e Mariella Nava, a 14 lavori con Teddy Reno e a 19 ricevi i complimenti di Leon Hendrix per la tua esecuzione di "Whole Lotta Love" al "Rock city" di Roma. Quali sono le sensazioni del lavorare fianco a fianco con artisti come questi e di incontrare un vero e proprio mito come Leon? In futuro, con chi vorresti duettare?

R: Le sensazioni a volte sono indescrivibili e vorresti che non finisse mai. Ma ho tanta, tantissima strada da fare e sono un tipo che sogna decisamente in grande. Tutti dicono sempre “Io non sarò mai uno di quelli”. Io invece a volte penso il contrario: “E se fossi io uno di quelli?”. Questo è il mantra che mi ha fatto lottare contro bocciature, falsi amici, colleghi capaci e non, serpi e cattive compagnie. Quando sai fare qualcosa ti vogliono buttare giù, vederti realizzata sarebbe lo specchio del loro fallimento, ma questa è un’altra storia. Insomma, non sono un tipo che si perde d’animo e alcune di queste collaborazioni le ho ottenute per pura fortuna, altre grazie alla mia determinazione.

A 14 anni volevo tatuarmi il logo degli Aerosmith sulla schiena. Una cosa tamarrissima, ma quello che volevo (e che sotto sotto ancora bramo) era SOLAMENTE fare un paio di canzoncine con il signor Steven Tyler! Ma scherzi a parte, purtroppo quelli con cui mi sarebbe piaciuto cantare non sono più nel mondo dei vivi e quelli che rimpiango più in assoluto sono Etta, Janis e Frank. Anche se Steven Tyler e Robert Plant sono ancora vivi, e forse posso rifarmi con l’erede, magari esce qualcosa con Michael Bublé, non si può mai sapere :)

d: Collaborazioni importanti, due rock band e un duo blues all'attivo, e infine i musical, prima il "'68 italian rock musical", poi "I promessi sposi", quando e come hai cominciato ad appassionarti ai musical? Quanto è lontano Broadway?

R: Sinceramente? Il musical è stata la cosa più inaspettata che potessi trovare nel mio percorso artistico!

Ne ho visti diversi a Broadway e poi qui a Londra sin da piccola, ma non avrei mai pensato di poter affrontare una preparazione per poter un giorno essere una performer. Avendo studiato con noti nomi del vocal coaching nel musical italiano come Gabriella Scalise, e pochi anni dopo con Francesco di Nicola, ho conosciuto aspetti tecnici della formazione fisica del mio apparato vocale, che mi hanno aiutato a perfezionare il suono e la voce stessa. Poi grazie a ’68 Italian Rock Musical, scritto e prodotto da alcuni dei nomi più influenti a livello di vocal coach, performers, attori e insegnanti come Maria Grazia Fontana, Attilio Fontana, Luca Velletri, Giulio Costa, Michela Andreozzi e Orazio Caiti, ho potuto portare questi studi sul campo stesso. Non smetterò mai di ringraziare questi nomi, uno ad uno, perché mi hanno resa una persona diversa, finalmente consapevole del dono che potevo portare con me stessa, ma consapevole anche del sacrificio che avrei dovuto fare per portarlo avanti. Avevo 16 anni e la mattina dopo lo spettacolo dovevo sempre ritornare a scuola, ed era ogni giorno una lotta perché nessuno capiva che la musica può essere (ed è a tutti gli effetti) un lavoro. E quelli erano gli anni in cui il mio ego cominciava ad essere un po’ più grande delle mie paure, gli anni in cui ho tirato fuori me stessa al 100% perché la musica è l’unica cosa che sapevo fare e volevo fare.

Un lavoro tosto, duro, che non ti lascia mai alcuna certezza se non quella per la quale hai cominciato, ovvero l’amore per la musica stessa. E’ solo l’amore che ti porta avanti, sempre e solo quello.

d: A 18 anni hai partecipato a X-Factor, e devo dire che è quantomeno raro vedere qualcuno con una formazione artistica come la tua partecipare ad un talent, programmi che per definizione tendono a prediligere il pop, come mai questa scelta? Che tipo di esperienza è stata?

R: X-Factor mi ha fatto capire tante cose, ma una più di tutte: quello che non voglio nella mia vita.

Io sono quella che sogna Broadway e Hollywood insieme, il glam, i glitter, oro, sono egocentrica a volte da far schifo, un po’ strana e mentire è l’ultima cosa che so fare. Però ci ho provato, mi sono detta “magari funziona”. E fino ad un certo punto è stato così. Poi per motivi apparentemente incompresi all’inizio, ma poi per fortuna capiti da chiunque abbia un livello di conoscenza musicale decente, non ho potuto continuare il mio percorso. Ci sono rimasta male, non poco inizialmente, ma aldilà di tutto ho conosciuto amici con cui ancora adesso ho un ottimo rapporto e quello a cui sono più vicina è Landon Gadoci, un biondino texano che qualche anni fa ha cominciato a fare video su YouTube, accumulando milioni di visualizzazioni. Ha una vocalità da brivido e con lui ho collaborato anche recentemente in un mash up che si può trovare sui nostri rispettivi canali di YouTube (http://youtube.com/nicoleofficialtube – http://youtube.com/gadoci). Lui da Austin spesso viene in Italia e io sto pianificando di andare fra non molto in Texas, facciamo serate e sessioni di studio di registrazione insieme. E’ un grande amico ed un grandissimo artista, ci stimiamo a vicenda e abbiamo un’affinità musicale che ho potuto trovare con pochissimi altri artisti, sempre miei grandissimi amici.

d: Progetti per il futuro? Sogni nel cassetto?

R: Bella domanda, ma il pentolone qui ribolle di novità! Da quando sono a Londra ho cercato subito lavoro per stabilizzarmi, ma ho ricevuto da poco una notizia mega-super-gigantemente meravigliosa: sono stata presa nel coro gospel londinese Urban Voices Collective, fresco di Cerimonia di Chiusura alle Olimpiadi 2012 in duetto con i Muse, e soprattutto appena usciti dagli Abbey Road Studios per il loro EP. Non vedo l’ora di cominciare a lavorare perché sono super entusiasta! Nel frattempo continuo a lavorare sul mio singolo prodotto dall’irlandese Des Mallon, in uscita nei prossimi mesi con distribuzione mondiale e su iTunes.

Da quando vivo qui non so mai cosa farò il giorno dopo, e mi piace così. Ho sempre i miei sogni e me li tengo stretti, ma lavoro perché prima o poi diventino realtà, e tra questi c’è un contratto con una grossa etichetta discografica. Come ho detto, sono quella da Broadway e Hollywood insieme… che cosa vi aspettavate? :)


Intervista pubblicata su Elfa Promotions

mercoledì 10 aprile 2013

Carry-All - Drink it yourself



“Do it yourself“, un monito che dagli anni ’90 è diventato una sorta di dogma, un dettame che ha proverbialmente trasformato la necessità in virtù, divenendo un punto d’onore da sfoggiare come una medaglia che testimonia la tenacia di chi insegue il sogno artistico e non monetario.

Ma si sa, quando è cotta la frittata si rigira facilmente, e così con il passare degli anni quel punto d’onore – che dovrebbe derivare da meriti artistici relegati in un angolo dall’orecchio disattento delle major – è diventato una sorta di fregio snobistico, perché essere indie è figo a prescindere e tutto il resto è noia, perché se una band si autoproduce e l’anno successivo viene scoperta e messa sotto contratto dalla EMI allora “sono dei venduti”, come se l’ambizione di un musicista o di un cantante dovesse essere quella di suonare solo e soltanto per piacere continuando a fare un lavoro ed una vita normali, e non di poter vivere della propria musica dedicandocisi anima e corpo senza dover chiedere giorni di permesso al capo reparto.

Questa non è certo una crociata contro le band che si autoproducono, anzi, ben venga il coraggio di lavorare sodo e tanto di cappello a chi non si lascia abbattere dalle difficoltà che il cercare di emergere si porta appresso, ma quella dell’indie è una questione che mi ha sempre dato da pensare e della quale ho sempre temuto le conseguenze; per quale ragione una band si definisce “indie-rock”? Perché non semplicemente “Rock”? Cosa aggiunge la parola indie alla definizione di un genere musicale? L’impressione è che la sola parola indie sia diventata in molti casi una sorta di scudo, una maschera snob e spesso intellettualoide da mostrare per non rischiare troppo, perché se fai rock e lo fai male, pigli le critiche e le porti a casa, se invece fai “indie-rock” chi ti critica lo fa perché non capisce ed è troppo legato al “mainstream”, che è un po’ come quando la tua ragazza in piscina fa dei confronti tra il tuo fisico e quello del bagnino e tu – con la pancetta bene in vista – rispondi “Si, ma di sicuro è gay“….

Tutto questo sproloquio per dire che ci sono parole fastidiose, e la parola “indie” lo sta diventando sempre più, e così è una bella sensazione, fra decine di album indie-qualcosa, ascoltare un album punk. Punto. Senza quell’odiosa parolina che onestamente mi sono stufato di utilizzare e di cui il punk non avrà mai bisogno. E poco importa se i friulani Carry-All siano davvero indipendenti e autoprodotti, perché il “Do it yourself” – che pure si respira in tutti i brani – si trasforma nel più divertente “Drink it yourself” che dà il titolo al nuovo lavoro della band udinese, attiva da ormai più di 10 anni e con interessanti lavori alle spalle, non ultimo “Emotivhate”, predecessore di “Drink it yourself” datato 2008.
Un titolo divertente per un album altrettanto divertente, casinista, punk nel midollo, eppure capace di mantenere una spiccata originalità: l’album infatti non finisce nella prevedibilità dei cliché tipici delle punk band, non scimmiotta ne i Ramones, ne i Sex Pistols, ne tantomeno il punk più moderno di Offspring o Green Day, certo, qualche richiamo c’è, è innegabile, e lungo le 13 tracce che compongono l’album si possono chiaramente leggere le influenze di questi gruppi, oltre a quelle più marcate di Pennywise, NOFX, Rancid e Exploited, ma sono influenze che riescono a rimanere tali e che aggiungono qui e là elementi sonori riconoscibili che si amalgamano in maniera splendida con ispirazioni differenti e dal sapore vintage.

In “Drink it yourself” infatti i ritmi punk si mescolano con vibrazioni più rock, qualche traccia – seppur lieve – di blues, lo ska con i suoi ottoni squillanti, lo psychobilly ed il rockabilly nei brani più ballabili ed un hardcore punk di gran classe nei pezzi più secchi e chiassosi, e poi ancora piccoli richiami sapientemente dosati lungo i circa 40 minuti di durata dell’album. Il risultato è un disco fluido, senza cedimenti o bruschi cambi di rotta, tanto scanzonato quanto ribelle, serio e critico, ma anche un po’ cazzone, che si apre con la dichiarazione di intenti su tempo swing di “I do it for myself”, e prosegue alternando brani dai contenuti caustici come “Nothing changes (in Italy)” o “It doesn’t matter” con pezzi che divertono con leggerezza come “Denise was a liar” ed altri tanto espressivi nella loro natura vintage da trasportare l’ascoltatore in fascinosi scenari della prima metà del secolo scorso, e ne sono un esempio “You rascal you” e la splendida “Rocking Rag”, divertissement a metà tra punk e charleston che viene posto a degna chiusura di un album dal sapore allo stesso tempo morbido e pungente, eterogeneo in tutto e per tutto, ma amalgamato con sapienza e suonato in maniera impeccabile.

Ci sono tanti elementi in “Drink it yourself” da poter scrivere ancora diverse centinaia di parole, perché ogni brano si meriterebbe una piccola analisi, e così si dovrebbe fare per la copertina, vintage ed ironica come l’intero disco, ma la questione principale è una, e risulta evidente soltanto mettendo il cd nello stereo e premendo play, la questione è che l’originalità non è qualcosa che si compra, e nemmeno si acquisisce per bontà divina sventolando l’etichetta dell’indie, l’originalità, come la genialità, sta nelle cose piccole, nel doo-wop che si mescola con l’hardcore, nel rock rabbioso che si sposa con lo swing, in un punk che non sembra punk, ma che in fondo proprio per questo lo è ancor di più. In mezzo a tanti “indie” e tanti “alternative” tutti uguali è bello trovare una band davvero originale e alternativa, e allora complimenti ai Carry-All! Avanti così!

Voto: 8


Tracklist

1. I do it for myself
2. D.I.Y.
3. Denise was a liar
4. It doesn’t matter
5. Distorted reality
6. Brand new day
7. Double malt happiness
8. What’s the matter with us?
9. You rascal you (Fletcher Henderson cover)
10. No fun in my hometown
11. Nothing changes (in Italy)
12. My own way
13. Rocking rag



Recensione pubblicata su Oubliette Magazine

mercoledì 3 aprile 2013

"LAST FAR WEST" al Festival di Cannes 2013

Ricevo ed integralmente il comunicato per la prima mondiale di "Last Far West" al festival di Cannes 2013.




"LAST FAR WEST"
prima mondiale
al Festival di Cannes 2013
Sezione Short Film Corner

In occasione del 66° edizione del Festival di Cannes, che si svolgerà dal 18 al 25 maggio 2013, la produzione indipendente Kina&Cris Studios presenta Last Far West, cortometraggio ammesso nella sezione Short Film Corner.
Il sipario si apre in un salone di una antica casa nobiliare nel quale un notaio espone ai presenti non un testamento ereditario bensì un piccolo elenco di volontà dell’anziana signora deceduta. Ad assistere alla lettura di questi ultimi desideri vi sono due figli ed un nipote sconcertati dalle richieste insolite e stravaganti della loro cara. Le volontà vertono tutte sulle esequie stesse della donna che punto dopo punto sviscera i passaggi e le tappe del suo ultimo viaggio. I figli irritati, provando ad accantonare queste idee strampalate, si scontrano con la determinazione del nipote intento ad onorare, passo dopo passo, queste ultime volontà.

L'idea
L'idea nasce a Gennaio 2013. Le riprese vengono effettuate dal 1 al 6 Febbraio; neisuccessivi 20 giorni il prodotto viene montato e sonorizzato. Finisce la produzione a fine marzo 2013.
L'obiettivo era : partecipare nuovamente al festival di Cannes (data la partecipazione al 65' Festival di Cannes-2012- con il corto "Horror Vacui" sempre diretto dal duo Cristian Iezzi e Chiara De Marchis, scritto da Davide Carrazza).
LAST FAR WEST” è un prodotto low-budget, realizzato con la collaborazione di tanti professionisti che hanno creduto nel progetto.

LAST FAR WEST
durata:
22 minuti
genere:
Commedia
prodotto da
Alveare Cinema Kina&Cris Studios
diretto da
Cristian Iezzi Chiara De Marchis
scritto da
Davide Carrazza
con
Remo Stella
con l'amichevole partecipazione di
Tommaso Busiello
e
Maurizio AnnesiCarlo Altomonte e Stefano Piacenti
in collaborazione con
Trans Audio Video S.R.L. Marco Brighel
colonna sonora originale di
Michele BettaliStefano Carrara e Fabrizio Castanìa
Si ringraziano inoltre: Canon Cinema Eos, Rita Forzano, gli operatori e tecnici pre e post produzione


Catalogo Short Film Corner – Festival de Cannes 2013 (cercare Last Far West)

Ufficio stampa ELFA Promotions
per K&C Studios
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