venerdì 30 agosto 2013

Provaci ancora Trent!


Sottotitolo: Se vuoi fare la fine dei Muse sei sulla strada giusta...

"Hesitation marks" è l'album che segna il ritorno dei Nine Inch Nails di Trent Reznor. Ritorno, oltre che nei negozi di dischi, sulle scene live di un po' tutto il mondo a ormai oltre 4 anni di distanza dalla "pausa dalle attività live" annunciata dallo stesso Reznor sul sito della band, e forse è da qui che dobbiamo iniziare, perchè dopo qualche anno di assenza è proprio dal vivo (i NIN sono passati in quel del forum di Assago mercoledì scorso per l'unica data italiana del loro tour) che si possono fare le migliori considerazioni sullo stato della band.

Iniziamo dalla serata di mercoledì quindi. Concerto sold-out da tempo (e del resto sarebbe stato veramente difficile aspettarsi qualcosa di diverso), parterre foltissimo e animi pronti al pogo, poco dopo le 20 ci pensa il gruppo spalla a scaldare la folla, sul palco salgono infatti per l'occasione i Tomahawk dell'ex Faith No More Mike Patton, un'esibizione breve ma intensissima, un crescendo ritmico tanto potente da lasciare sconvolti i silenti spettatori, che non possono far altro che "subire" attoniti la performance del supergruppo statunitense, condita da qualche frase in italiano scandita dal buon Patton, che sulla meritatissima standing ovation finale commenta "Siete molto generosi per una band spalla". Beh, se tutte le band spalla fossero così non ci sarebbe bisogno degli headliner... L'adrenalina sale e poco dopo, a luci ancora accese entra in scena il protagonista della serata, Reznor fa il suo ingresso sul palco completamente vuoto e si gode lo stupore del pubblico, che non fosse per l'abnorme massa muscolare forse l'avrebbe scambiato per uno qualunque dei tecnici. Il concerto inizia così, con Egocentrismo Reznor al centro di un palco vuoto che, mani poggiate sulla tastiera elettronica, attacca con "Copy of A", estratto dal nuovo lavoro, mentre pian piano anche gli altri membri della band fanno capolino sul palco armati di sole strumentazioni elettroniche. E' soltanto l'inizio, ma sono già chiari almeno due aspetti, il primo è il taglio (fin troppo) sintetico che prenderà lo spettacolo, e il secondo è che l'ego di Trent Reznor farebbe impallidire il Re Sole.

Da qui in avanti sono due ore quasi ininterrotte che confutano in tutto e per tutto le prime impressioni... Reznor è sempre al centro della scena, sempre con un occhio di bue puntato in testa, di colore diverso rispetto agli altri, e spesso è persino l'unico visibile mentre il resto della band è in controluce o addirittura al buio completo, perennemente un passo davanti agli altri sul palco, e - quando non lo è - si piazza su una pedana rialzata, per la serie "Io sono io e voi non siete un cazzo".... E' proprio questo l'atteggiamento, non solo nei confronti della band, ma anche verso il pubblico: probabilmente nella mente del frontman il pubblico è lì soltanto per adorarlo e idolatrarlo, e per questo non azzarda nessun tipo di rapporto con la folla, spiccica qualche "Thank you" tra un brano e l'altro e scende dal palco una sola volta senza immergersi troppo nel pubblico, ma nulla più. In compenso l'esibizione è davvero potente, con volumi da sordità ed effetti visivi decisamente ben riusciti, due su tutti le centinaia di luci da ogni punto del palco e l'intelligente utilizzo dei pannelli che brano dopo brano vengono spostati quasi ossessivamente, tanto per proiettare immagini, ombre, video ed effetti vari, quanto per mascherare l'enorme lavoro dei tecnici nello spostare le strumentazioni a tempo di record. E' la componente visiva il fulcro di tutto lo show, durante il quale i NIN srotolano una setlist di ben 25 brani, equilibrati e molto furbescamente distribuiti lungo la serata, con classiconi quali "Closer" o "Head like a hole", pezzi vibranti come "The wretched", ma soprattutto interminabili intermezzi elettronici, ed è qui che casca l'asino, perchè non a caso i brani più allungati sono quelli più droneggianti, riverberati e gracchianti, insomma, pare proprio che il quasi cinquantenne Trent - nonostante chitarra alla mano ci dia dentro pesantemente - abbia bisogno fin troppo spesso di abbandonare i ritmi da pogo e urla per mettersi comodo di fronte alla consolle e riprendere fiato...

Lo spettacolo e il divertimento comunque ripagano ampiamente il prezzo del biglietto, e se così non fosse bastano i cinque minuti della conclusiva "Hurt" a mettere tutti d'accordo ('chè i classiconi a questo servono: canto corale, accendini accesi e tutto il resto non conta più), ma resta comunque addosso una sensazione straniante, la stessa che si prova mettendo "Hesitation marks" nello stereo. L'attacco è affidato a "The eater of dreams", un crescendo gracchiante che assomiglia alle inquietanti intro di album black o doom metal, ma ci pensa "Copy of A" a troncare il discorso: non ci sono chitarra basso e batteria picchiati duro ad aspettarci dietro il muro, ma tastiere, drum machine, synth e diavolerie eletttoniche varie. Si sale e si scende in continuazione con bpm e volumi quasi fossimo sulle montagne russe, con accelerate violentissime come "In two" o "Running" e improvvisi rallentamenti come "Find my way", un'intro alla soglia dell'ambient seguita da un crescendo sonoro in perfetto stile post-rock nordico, un po' Bjork e un po' Sigur Ros, ma non illudetevi, è soltanto qualche breve parentesi, per la gran parte della durata dell'album a farla da padrone sono riverberi elettronici, echi quasi obnubilanti, organetti, deviazioni rumoristiche e muri sonori.

Dove sono finite le chitarre? Niente, quasi nessuna traccia, giusto qualche accenno qui e là, quasi sempre zavorrate dai synth, e la batteria? Soppiantata in toto dalla drum machine. Stessa sorte per il basso, sacrificato in favore dei riverberi. Come si poteva già prevedere da alcuni precedenti quali "With Teeth" e "Ghosts I-IV", Trent Reznor (inutile parlare di Nine Inch Nails quando è più che evidente chi sia il solo a portare i pantaloni in casa) è arrivato dopo anni di sperimentazioni ad un punto di svolta cruciale, uno di quei momenti in cui ci si trova ad un bivio e si sceglie una strada; bene, Trent sembra aver ingranato la quarta in direzione dell'electro-minimal. Scelta artistica di tutto rispetto, non fosse che i dubbi sorgono sempre più man mano che si prosegue nell'ascolto di "Hesitation marks", perchè se la scelta dell'elettronica a discapito del suono "analogico" è chiara non lo sono altrettanto i moltissimi richiami a generi più o meno "di tendenza", tracce di dubstep qui e là, un poco di drone, melodie scopiazzate dai Depeche Mode, rumori danceggianti presi in prestito da Daft Punk, e poi "Everything", settima traccia del disco, messa lì nel mezzo, nel pieno delirio allopatico 3 minuti di schitarrate violente, batteria in picchiata duro e ritmo post-punk....

E allora che cos'è questo "Hesitation marks"? Sono questi i segni di esitazione? Reznor vuole lanciarsi nel profondo delle sonorità minimali ma non riesce ad allontanarsi dall'adrenalina di una chitarra? Oppure è un modo per lasciare aperte le porte verso sperimentazioni con i generi più disparati? Non è dato sapere cosa ci sia nella sua testa, forse un geniale grande disegno che i comuni mortali non possono capire, o forse, ed è questo che - con un forte dolore al petto - mi viene da pensare, un'enorme, atomica, allucinante furbata, un minestrone di tutto e niente, un pot-pourri di esitazioni, accenni, citazionismo e autoerotismo ritmico. Tra pochi giorni saranno qui tutti a celebrare questo album come l'opera di un genio totale (l'ho già sentito paragonare a "The Downward Spiral" e mi è venuta l'orticaria), e sono pronto a ricevere gli insulti di chi mi dirà che non capisco la portata artistica del disco, o che mi dirà che il rock è morto e il futuro è questo, sarà, ma se fino a pochi anni fa avrei paragonato Trent Reznor a gente come Blixa Bargeld o Brian Eno, ora, dopo il quindicesimo ascolto di questa onanistica ora e venti minuti di autocelebrazione, l'unica vera similitudine la trovo con Matthew Bellamy e i Muse del pessimo "The 2nd law".

Spero sia soltanto un passo falso, perchè alla prova live - fiatone a parte - i NIN hanno dimostrato di essere ancora in grado di fare un gran bel casino, e perchè in fondo la speranza è l'ultima a morire, tu provaci ancora Trent, io aspetto fiducioso e torno ad ascoltare "Hurt"...

Voto: 4,5

Tracklist

1. The Eater of Dreams
2. Copy of A
3. Came Back Haunted
4. Find My Way
5. All Time Low
6. Disappointed
7. Everything
8. Satellite
9. Various Methods of Escape
10. Running
11. I Would for You"
12. In Two"
13. While I'm Still Here
14. Black Noise

Bonus Track - Versione Deluxe

15. Find My Way (Oneohtrix Point Never Remix)
16. All Time Low (Todd Rundgren Remix)
17. While I'm Still Here (Breyer P-Orridge 'Howler' Remix)






lunedì 26 agosto 2013

Da wildwood con furore


A leggere la biografia di Dana Fuchs sembra di trovarsi di fronte all'ennesimo film pseudo-favola-romantico-musicale stile "Le ragazze del coyote ugly", ma per questa volta le logiche da botteghino facile non c'entrano, è tutto vero... Eppure gli elementi ci sono tutti: c'è una famiglia numerosa che fa tanto americani conservatori (Dana è la più giovane di ben sei figli), c'è una passione per la musica che nasce prestissimo e pare diventare l'unica ragione di vita, tanto che Dana - poco più che adolescente - annuncia alla famiglia "vado a New York per cantare il blues". Certo, Dana arriva da Wildwood, che - nonostante il nome molto cinematografico - è una piccola cittadina della Florida e non un villaggio di bovari sperduto nell'Arkansas o nel Montana come il manuale della commediola romantico-musicale insegna, ma per il resto la sua storia assomiglia non poco ad una "favola moderna" se così la vogliamo chiamare, corredato da tragedie che le lasceranno il segno, e dall'immancabile lieto fine con il sogno della musica che si realizza...

La simbiosi tra Dana e la musica comincia prestissimo, anche i suoi fratelli maggiori infatti ci si dedicano e il risultato è che Dana cresce fin da piccola circondata dalla musica; a 12 anni si unisce al First Baptist Gospel Choir, dal quale apprende una forte inclinazione al soul, mentre a 16 anni entra a far parte di una blues band locale. Da qui in avanti il blues e il soul non la abbandoneranno mai più e faranno da fondamenta per una carriera che comincia pochi anni dopo, con l'approdo tra le confusionarie strade di New York, tra le quali - come da copione - Dana non si sente a suo agio, fin quando, a 19 anni, la notizia del suicidio della sorella la sconvolge ma allo stesso tempo la spinge a mettere tutta sè stessa nella musica. Inizia così a girare tra i locali blues di New York partecipando ad alcune sessioni di improvvisazione, ed è proprio in una di queste serate che conosce Jon Diamond, già chitarrista di Joan Osborne e Debbie Davies, insieme al quale fonda la Dana Fuchs Band. La band diventa ben presto famosa nell'ambiente, e nel giro di un anno Dana e i suoi si ritrovano a condividere il palco con John Popper, James Cotton e Taj Mahal. Passano altri due anni caratterizzati da un'intensissimo allenamento vocale, dopo i quali Dana - con la collaborazione di Jon - scrive nuovi brani e torna a calcare la scena. Questa volta i nomi si fanno più grossi, sia quelli dei locali - The Spephen Talk House e BB King's, tanto per dirne un paio - che quelli degli artisti con cui Dana condivide il palco, due su tutti quelli di Marianne Faithful e Etta James. Nel 2003 arriva l'album di debutto, "Lonely for a lifetime", accolto con entusiasmo da pubblico e critica, e dopo il quale Dana viene chiamata per interpretare nientemeno che Janis Joplin nel musical "Love, Janis" e per quella di Sadie per il film "Across the universe" (ve la ricordate la biondona che canta Helter Skelter?...). A "Lonely for a lifetime" seguono "Live in NYC" del 2008 (l'album è difficile da reperire ma l'ascolto vale lo sforzo, provare per credere...), il non entusiasmante "Love to beg" del 2011, ed infine la sua ultima fatica, "Bliss Avenue", pubblicato a luglio di quest'anno.

Una nuova tragedia familiare - la morte del fratello - ha assestato un nuovo colpo basso a Dana, che però risponde con una prova di forza, la sua prova migliore finora, 12 tracce lungo il sentiero del blues e del rock, con contaminazioni soul, country, e persino hard rock, con riffoni seventies che sanno di Zeppelin, attimi country e profonde divagazioni soul, il tutto condito da una passione più che palpabile. Il risultato è un album senza il minimo cedimento, solido, con un Jon Diamond in stato di grazia che - come Joe Bonamassa con Beth Hart - serve ottimi assist elettrici per Dana ,che si destreggia apparentemente senza la minima fatica tra le atmosfere honky tonk di stonesiana memoria di "How Did Things Get This Way", le cavalcanti sgroppate polverose di "Rodents in the Attic", tra i brani migliori del disco, passando addirittura per tracce di pop rock anni '80 ("Long long game" sembra scritta, suonata e cantata dalla premiata ditta Sambora-Bon Jovi) e ritmi tra R&B e gospel. In mezzo c'è tutto, c'è "Daddy's little girl", pezzo che - mi perdonino i fan del boss se pare una bestemmia - ricorda lo Springsteen più allegro, ci sono le ballate come l'elettroacustica "Baby loves the life" - forse il più radio-frendly dei 12 pezzi, che non mi stupirei di trovare presto nella soundtrack di qualche commedia romantica -, l'acustica "Nothin' on my mind" con il suo sapore di far west, e infine "So hard to move", dal sound morbido e carezzevole, ma dalla voce consumata e intensa, sentimentale e vibrante come è giusto che sia un brano scritto sul letto di morte del proprio fratello; un pezzo da ascoltare lontano dai superalcolici. Non manca neppure il rock, quello classico, elettrico e sprezzante, quello di "Keep on walkin'", pezzo senza fronzoli, un po' tamarro forse, ma certamente da ascoltare a volume altissimo; e poi ancora il lato soul di Dana che prende il sopravvento in "Vagabond wind" e sfocia nell'R&B della splendida "Livin' on sunday", con i suoi cori gospel a sostenere la potente voce della Nostra. Sembra di essere tornati indietro di qualche decennio, quando una gran signora di nome Tina Turner scriveva intere pagine di storia, e certo Dana Fuchs non sarà mai LA leonessa, ma di certo sa mordere e - soprattutto - ruggire... Se ne volete la prova basta mettere il cd nello stereo e premere play, se il paragone con la Turner vi sembrava esagerato la traccia di apertura e l'aura di Janis Joplin che le aleggia intorno vi faranno cambiare idea: la title track è un violento ruggito in salsa electric-blues, con chitarra cadenzata, batteria ad incedere costante e qualche breve svisata del buon Diamond, un sound che odora di Led Zeppelin a km di distanza, perfetto per Dana, che tira fuori tutto quello che ha dentro, armata di una voce ruvida come la carta vetrata scava nel profondo, si affaccia sulla voragine, e tra le viscere del suono trova l'anima del blues, la graffia e regala una canzone che vale un album intero.

Voto: 8,5

Tracklist

 1. Bliss Avenue
 2. How Did Things Get This Way
 3. Handful Too many
 4. Livin’ on Sunday
 5. So Hard to Move
 6. Daddy’s Little Girl
 7. Rodents in the Attic
 8. Baby loves the Life
 9. Nothin’ on My Mind
10. Keep on Walkin’
11. Vagabond Wind
12. Long Long Game




venerdì 23 agosto 2013

Chi non muore si rilegge....


Mamma mia che desolazione che ho lasciato da queste parti!

Direi che è ora di ricominciare, nuovo layout, nuova immagine per il titolo, blog in modalità on, e speriamo che sia la volta buona....

Nel frattempo vediamo di scrollare via un po' di polvere, volume al massimo e facciamo un po' di casino! A tra pochissimo!